domenica 22 dicembre 2013

LA VIA PIU' DIFFICILE

Oggi, a 41 anni suonati, mi accorgo che per percorrere molte delle strade della mia vita ho preso la strada più difficile, quella lastricata di dubbi, quei dubbi fomentati dai paragoni con ciò che ti sta intorno (a volerlo notare).

Ho scelto di essere onesto sino all'ingenuità. In questo rispondo all'educazione ricevuta sin da bambino e mi ha sempre causato enormi fregature, non reggendo il confronto con furbastri e furbacchioni di turno. Ma soprattutto non reggendo il confronto con la mia coscienza.

Ho scelto per professione di privarmi di una parte dei diritti civili costituzionalmente garantiti per rendere un servizio al mio Paese, alla mia gente, tutti indistintamente.

Ho scelto di seguire le regole, perché la libertà personale comincia dove finisce quella altrui eccetera eccetera eccetera. E anche se alcune regole le considero irragionevoli, antiquate, inadeguate, assurde o del tutto stupide, mi sforzo di tenere sempre a mente di non essere da solo in un deserto, ma di essere perennemente circondato da simili, con diritti e doveri simili.

Ho scelto, e cerco sempre di scegliere, soluzioni "win-win", ritenendomi io già sufficientemente fortunato nella vita da rifuggire l'inseguimento perpetuo del mio vantaggio personale a scapito degli altri.

Ho scelto di essere un cittadino, nel senso che sono più o meno cosciente dei miei doveri, forse un pò meno dei miei diritti, di sicuro del ragionevole buonsenso.

Ho scelto tante cose - e per tante volte - in vita mia, praticamente sempre cercando di avere una linea guida quantomeno morale, un'etica di riferimento basata sulla convivenza civile, e cose del genere.

Tali esercizi comportano l'abbondante ricorso alla santa pazienza quale imprescindibile pratica quotidiana.

Mi risulta pertanto particolarmente difficile in questo momento reprimere la furibonda incazzatura rimediata ieri pomeriggio mentre, assieme alle dozzine di partecipanti alla Critical Mass di San Lazzaro 2013, sono stato testimone diretto - da tre metri di distanza - di un tentativo di omicidio stradale ad opera di un decerebrato, convinto di essere alla guida di una nube di vapore profumato e non di un solido autoveicolo (seppur elettrico e di dimensioni compatte). Questo elemento tossico-nocivo, questo errore del Creato, nel bel mezzo di Piazza Diaz a Milano, strada già stretta e congestionata di suo, ha deciso di dover passare, e di doverlo fare in fretta e a qualsiasi costo. Il fatto che innanzi a lui si parassero decine di ciclisti che sfilavano pacificamente non ha fatto baluginare alcuna scintilla di ragionamento in questo verme schifoso, che infatti ha giocato ai birilli con due di loro per poi tentare di defilarsi. Solo che, guarda la jella, un terzo birillo gli si è infilato sotto le ruote dopo essere stato scaraventato giù, e fine della corsa. Solo l'intervento di un nutrito numero di partecipanti alla Ciemme più esperti, nonchè degli agenti di Polizia Locale che accompagnavano il corteo, lo hanno salvato da un incipiente linciaggio.

Mi è difficile dimenticare il tonfo. Quello che nessun giornalista potrà mai resocontare sarà il suono sordo e lugubre di una bicicletta che rovina a terra e viene schiacciata dalle ruote. Nessun giornalista ha la possibilità di descrivere la gragnuola di frantumi di fanalini e catarifrangenti della bici che piovono tutt'attorno.

E mi risultano ancor più indigeste anche solo le voci circolate sullo sciacallaggio giornalistico che, a quanto pare, sembrerebbe essersi attivato quasi subito da parte di giornalisti di una notissima testata cittadina (niente affatto benevola con la Ciemme e con tutta la causa cicloambientalistica) che - nonostante la prova di notevole calma e maturità da parte di tutti i ciclisti presenti - hanno continuato a soffiare sul fuoco della provocazione, incitando alla rissa nell'inutile tentativo di accreditare la tesi di una masnada di facinorosi pronti a menare le mani sul povero automobilista, tesi poi puntualmente perorata nell'articolo scodellato l'indomani, a dispetto della realtà dei fatti.

Ma quello che mi ha profondamente provato è stato il dover lasciare il Bloster nello zainetto anzichè impiegarlo per istoriarvi il parabrezza dell'auto, per poi guardare dal marciapiede questa merda umana lasciare tranquillamente il luogo della festa, pronto a rifare tutto daccapo.

Poi però mi calmo.

Poi però mi calmo e ascolto.

E mi capita di ricordare il messaggio del Mazzei, gran persona mai abbastanza elogiata, nel prosieguo della pedalata verso la Stecca, che in quelle quattro parole scambiate pedalando a testa bassa e muso lungo sotto la pioggerella milanese di fine dicembre, condensa un misto di saggezza, amarezza e sollievo perchè in fin dei conti è stato evidente chi avesse ragione e chi torto, al di là della concitazione iniziale, e per puro caso nessuno si sia fatto male in modo serio, o irreversibile.

Mi calmo e rifletto.

E mi capita di metabolizzare tutti i punti di vista che si sono rincorsi su Faccialibro nella serata di ieri e nella giornata di oggi. Rammarico, incredulità, l'azione pratica per affrontare il lato giuridico-legale della vicenda, il racconto di chi c'era.

Da tutto questo guazzabuglio ne esco un pò a pezzi.

Le mie motivazioni civili si sono graffiate e ammaccate parecchio, ieri pomeriggio.

Ma posso testimonare personalmente il potere curativo che la fierezza e la compostezza dei ragazzi della Massa di ieri pomeriggio hanno avuto sullo sconforto e la tristezza. Una via difficile da percorrere, perchè a far male ci vuole un attimo, mentre la positività ha bisogno di educazione, guida, forza e perseveranza che hanno bisogno anche di un gruppo nel quale confrontarsi, e di cui sentirsi parte attiva.

Ne vado fiero.

Sono fiero di noi.






sabato 7 dicembre 2013

FINALMENTE UNA SPIEGAZIONE....

..... alla domanda "ma cosa ci trovi nella bici?".

Adesso però ve lo faccio dire anche da qualcun altro. Buona visione.



sabato 30 novembre 2013

GONFIORI

Essere ciclisti, in una certa iconografia, richiama immagini di serenità, pace col mondo, accettazione zen di qualsiasi avversità ambientale e climatica nella suprema estasi pedalatoria. E sostanzialmente è vero, complice l'appagante libertà che la bicicletta consente, che chiunque può sperimentare e testimoniare.

Ovviamente a ciò si associa l'obbligo di rispettare delle regole, fatto questo che insorge laddove vi sia la coesistenza di almeno due persone, qualsivoglia sia il contesto, e che a mio modesto avviso si pone in modo complementare e non limitativo.

Ora, calandomi nell'esperienza del pendolare ciclista mi è successo di voler integrare il semplice buonsenso con le regole cogenti, ottenendone un abbigliamento adeguatamente vistoso, e degli accessori sufficientemente visibili e di buona qualità. Come mia norma comportamentale ometto di attraversare col rosso, pedalare sulle strisce, e men che meno di procedere sui marciapiedi sfiorando i pedoni. Talvolta suscito ilarità, io in coda ad attendere il verde assieme alle auto. Mantengo una ragionevole distanza dagli autoveicoli, cercando sempre di prevederne le traiettorie e di essere sempre prevedibile senza suscitare malintesi.

E allora capita che MI SONO ROTTO I COGLIONI.

MI SONO ROTTO I COGLIONI di chi si immagina che i ciclisti siano tutti indistintamente un'accolita di boriosi indisciplinati, e mentre lo fa sfreccia ai novanta in città.

MI SONO ROTTO I COGLIONI di chi farnetica di imporre targa e casco ai ciclisti, come se queste due ridicole misure bastino a moderare gli effetti di un urto con un SUV, o a lenìre lo stritolamento sotto le ruote di un camion (ai quali, invece, non si parla neppure di impedire alcunché). 

MI SONO ROTTO I COGLIONI di spot pubblicitari degni del miglior Lombroso, nei quali dei solidi e pesantissimi pezzi di ferraglia - espressione di un livello tecnologico di due secoli fa - vengono spacciati come valore, ispirazione, emozione, del tutto incorporei e svincolati dalle responsabilità oggettive della loro conduzione su strada.

MI SONO ROTTO I COGLIONI della banalità del male, oramai sorpassata abbondantemente da atteggiamenti apertamente aggressivi e violenti nei confronti di chi sceglie la bici, che ultimamente culmina nell'esortazione a reintrodurre lo stemmino della Mercedes in posizione verticale, onde prendere meglio la mira nel puntare il prossimo rompiballe su due ruote.

MI SONO ROTTO I COGLIONI di assistere quotidianamente a decessi sulla strada nel semplice esercizio di un diritto di scelta, premesso che quest'ultimo è, e deve essere, il principale vantaggio di una democrazia (nei fatti attualmente assente in Italia), altrimenti vado a vivere in Iran che tanto sempre Repubblica è.

MI SONO ROTTO I COGLIONI dell'assenza di quelle alternative che - solo in Italia - solo a parlarne vengono viste come scese dal pianeta Marte: moderazione del traffico, direttrici di trasporto pubblico e parcheggi di interscambio per evitare l'ingresso delle auto in città, un trasporto pubblico efficace ed efficiente, limite di 30 all'ora nei centri urbani, divieto di parcheggio nei centri storici, zone pedonali, orari prestabiliti per il traffico commerciale, divieto di ingresso per i mezzi pesanti, stazioni di parcheggio custodite e protette per le biciclette in corrispondenza delle maggiori infrastrutture di trasporto (stazioni, metropolitane, capolinea autobus e tram, etc).

MI SONO ROTTO I COGLIONI della politicizzazione un-tanto-al-chilo tipica di chi abita il sedicente Belpaese, secondo cui chi parla di queste cose è irrimediabilmente un sedizioso comunista nemico del progresso e della convivenza civile, mentre le migliori conquiste nel senso della mobilità ciclistica sono state introdotte in quel borghetto di provincia che è Londra da quel verme schifoso di un antagonista Boris Johnson, fior fiore di sindaco conservatore thatcheriano, a cui ha fatto eco quel rottinculo marxista scioperato di Michael Bloomberg, plurimiliardario sindaco repubblicano di New York, eletto durante il regno di G.W. Bush.























































MI SONO ROTTO I COGLIONI di chi pontifica di piste ciclabili in sede protetta, come se servissero a qualcosa contro gli squinternati che corrono in auto, mentre ci sono esempi di parapetti autostradali sfondati come carta, o esempi di veri e propri tracciati stradali cittadini disegnati come autostrade che non lasciano scampo in caso di imprevisti. Imprevisti che divengono pure scuse, perchè chi commissiona, progetta e realizza opere di questo genere DEVE PREVEDERE adeguati margini di sicurezza da tali "imprevisti", ad esempio facendo rallentare le auto, a costo di inchiodarle a fucilate sul cofano motore. Il vero problema è INSEGNARE A CONDIVIDERE LE STRADE, PAGATE CON LE TASSE DI TUTTI (quindi anche di chi non usa l'auto).

MI SONO ROTTO I COGLIONI di chi ad ogni incidente, possibilmente mortale, ne fa una questione di visibilità, di indisciplina, di comportamento imprevedibile del singolo, di "caso isolato", di "fatalità", di imprudenza, se non proprio di "se l'è andata a cercare", "gli sta bene così impara", senza coordinare due-neuroni-due e cercare di cogliere il fatto che maggiore è l'affollamento veicolare e la relativa velocità, minori sono i margini di sicurezza per chi si trovi al di fuori dei veicoli (due soggetti a caso: ciclisti e pedoni). Il problema pertanto è che CI SONO TROPPE AUTO IN CIRCOLAZIONE, guidate spessissimo IN MODO SCELLERATO su opere alcune delle quali INSICURE.

MI SONO ROTTO I COGLIONI di chi gli obblighi e le regole le declina immancabilmente alla seconda e terza persona plurale: "voi" e "loro".

MI SONO ROTTO I COGLIONI di coloro che, guidando armi potenzialmente letali, si lamentano del fastidio che dànno le nostre biciclette, le nostre proteste, le nostre punture di spillo.

MI SONO ROTTO I COGLIONI del fatto che tutto questo mi sta rendendo cattivo e aggressivo a mia volta, e sto cominciando - io che non l'ho mai fatto - a mandare a fare in culo urlando e gesticolando gli automobilisti, sull'onda della botta di adrenalina.

MI SONO ROTTO I COGLIONI di una guerra sempre meno strisciante, sempre più asimmetrica, sempre più pericolosa, in cui ciònondimeno si rincorrono gli appelli alla correttezza, al dialogo, alla conciliazione, alla civiltà, a patto che sia da parte degli altri.

MI SONO ROTTO I COGLIONI di chi, da posizioni moralmente indifendibili, continua ad accampare scuse in un Paese che snocciola MIGLIAIA di morti all'anno sulle proprie strade. Visto che il fattore culturale (leggasi: convivenza civile, buon senso comune e normale prudenza) non fanno presa, beh, allora è il momento di interventi drastici.

E se percaso qualcuno di questi signori dovesse veramente tirarmi sotto mentre vado in bici, gli auguro di non commettere l'errore più grave: fare in modo che mi rialzi.

mercoledì 27 novembre 2013

UN BATTITO DI CIGLIA (prove tecniche di prematura scomparsa)

E allora è così che accade.

Magari una farfalla dalla parte opposta del globo terracqueo sbatte le ali, spaventando un pangolino che si chiude nella sferica corazza, causandone il rotolamento giù da una collina, e rotolando l'ignara bestiolina spezza un arbusto, le cui lunghe radici trasmettono una vibrazione nel terreno, che viaggiando attraverso la crosta terrestre riemerge dalle parti di San Giulano Milanese, proprio nel momento in cui sto affrontando distrattamente una curva a gomito, sul bagnato, troppo veloce e con postura scomposta, situazione in cui il mio baricentro è indeciso se attenersi ancora alle leggi della fisica classica o inventarsi qualcosa di naif, dandomi quella scossetta che mi fa franare a terra sul fianco destro, e scivolando con traiettoria di fuga tangenziale termino la corsa di traverso nella metà opposta della carreggiata. Pertanto contromano.

Ecco, magari è così che accade, ti ritrovi a slittare sull'asfalto umido e senza accorgertene finisci sotto un autocarro, un SUV, ma basterebbe pure una Seicento alla giusta velocità.

Un battito di ciglia, e via.

E invece no.

Perchè quella stessa farfalla, un istante dopo, si posa su un fiore, sbilanciandone la graziosa corolla sino a farne gocciolare i roridi petali, e la rugiata cadendo al suolo causa una microscopica variazione nell'assetto gravitazionale del pianeta Terra, proprio nel momento in cui, al meridiano opposto, un onesto signore sta preparandosi per uscire di casa, facendogli cadere il portamonete ed il suo contenuto, per recuperare il quale impiega quei venti secondi in più per uscire di casa, facendo in modo da NON sopraggiungere sul luogo della caduta in bicicletta proprio nell'istante in cui mi infilo contromano in scivolata.

Allo stesso tempo la medesima farfalla, stremata dalle svolazzanti fatiche di una giornata, sospira di sollievo predisponendosi al meritato riposo. E quel microrefolo, vagando per l'atmosfera, si infila in maniera surrettizia sotto la mia spalla destra facendola rimbalzare sull'asfalto, tanto da ritrovarmi, dopo una tranvata micidiale al suolo, dolorante e sub-lussato ma praticamente senza un graffio e senza neppure un osso rotto.

La strada, in città a metà giornata, è deserta.
Dietro di me, nella mia stessa direzione, arriva un autobus, ma per affrontare la curva a gomito è naturalmente costretto a rallentare a passo d'uomo.

Mi rialzo in fretta, risalgo sulla bici, e riparto come nulla fosse (a parte un dolore pazzesco alla spalla).

Ora, io sono un amante della parola, e so che per definire una simile vicenda esiste una cartesiana locuzione:
CULO.

Ma un culo di proporzioni titaniche, un pozzo di fortuna di una sfacciataggine tale da domandare scusa un giorno sì e l'altro no. E due volte nel giorni festivi.

Ancora non so quali altre lezioni trarre.

Il periodo di riposo impostomi dai medici scade tra due settimane. Forse avrò paura a riprendere ad andare in bici a lavoro.

Ma, come già detto su questo stesso blog, l'unica cosa di cui devo avere paura, è la paura stessa.




giovedì 31 ottobre 2013

L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 6: Parla come mangi (letteralmente)

Una delle peculiarità dell'andare bicicletta è il contatto con il circondario, con la realtà che attraversi, una maggiore vicinanza anche con le persone che incontri.

Questa particolarità si oppone nettamente alla percezione inscatolata propria dell'automobile, per quanto ampi e panoramici possano essere i cristalli e il tettuccio.

Spesso, sia da pendolare a pedali che da viaggiatore sui pedali, mi è capitato e mi capitano cenni più o meno di saluto, e piccole testimonianze di vita su questo pianeta da parte degli altri. Capita che  questi microcontatti non siano rivolti tanto a me quanto alla mia bici, specialmente per la curiosità magari suscitata nel vedere un mezzo "ibrido", con telaio MTB, freni a disco ma manubrio da strada. E può succedere che tale curiosità sia davvero irrefrenabile.

Un comune mercoledì da ciclopendolare, leggera pioggia.

Sto attraversando una tratto di strada un pò impegnativo e trafficato, popolato da una grossa rotonda (letale per definizione), un cavalcavia e uno svincolo della tangenziale est (per non farmi mancare proprio nulla).

Riesco a sopravvivere alle auto in coda (strada molto stretta, corsie canalizzate), svicolo via dalla rotonda, evito lo svincolo della tangenziale e affronto la gobba del cavalcavia.

Ho qualcosa da spendere nelle gambe, mi alzo sui pedali e salgo fuorisella. Un borbottìo meccanico si avvicina da tergo, mi tengo prudentemente sulla destra senza voltarmi.

Vengo affiancato da uno scooterista supervestito da pioggia che neanche i Gormiti in acido al Carnevale di Rio, che mi osserva a un metro e mezzo scarso. E già la breve distanza è sufficiente per destare allarme e innervosirmi.

Con gli occhi sempre rivolti avanti cerco di capire se il tipo cerca la rissa, o cosa. Mi suona, per attirare l'attenzione, con quella trombetta querula e fastidiosa tipica degli scooter.

Mentre continuo a pedalare fuorisella distolgo lo sguardo per un paio di secondi.

Il MotoGormito punta la bici col ditone guantato, e fa per informarsi: "E' un MISTO?".

[...]

[...]

Non colgo subito. Sarà un mio limite, l'inusuale contesto che invoglia poco alla conversazione, oppure l'uso a dir poco spregiudicato della lingua italiana mostrato dal mostro a due ruote che mi si tiene affiancato, imperterrito e in attesa di risposta.

Un misto. Ha detto proprio così. Un MISTO. Come quando si ordinano gli antipasti, nelle tavolate tra amici, al cameriere: "Facci un MISTO, va là, che facciamo prima".

Poi ci arrivo, in preda alla costernazione. Annuisco lentamente con ampia escursione della testa.

L'extraterrestre, soddisfatto, sgasa e se ne va.

Il cameriere torna con la comanda, ma non trova più nessuno al tavolo.






mercoledì 30 ottobre 2013

L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 5: Colazione da Tiffany

Ma che bella la bella stagione.

C'è più luce, il clima mite consente di vestirsi leggeri e di apprezzare il passaggio dell'aria sulla pelle, le giornate durano di più.

Ci sono le angurie, l'aspettativa delle vacanze, e i ritmi forse più rallentati ti fanno ricaricare le pile in previsione della ripresa autunnale.

Poi, però, ci sono gli insetti.

Piccoli, bastardi, onnipresenti.

E immaginate allora di stare pedalando in preda all'estasi, tranquilli e beati, nel fresco della mattina, sul quotidiano tragitto da casa a lavoro.

Immaginate anche di costeggiare, ogni giorno, una roggia di campagna, una di quelle rogge a testimonianza di una realtà rurale neanche tanto remota nel tempo, ma che adesso versano in uno stato di abbandono, puteolenti e acquitrinose.

Pensate adesso un tale microcosmo di acqua stagnante quale paradiso offra ai piccoli rompiballe ronzanti per prosperare, riprodursi, sciamare indisturbati e ignari di parabrezza e altre forme di pericolo.

Mentre incedete con plateale sicumera avvertite - con quel secondo di troppo - una minuscola variazione nella trasparenza dell'aria, un millesimale calo nella luminosità ambientale, un'opacità fluttuante, come un velo grigiastro appeso al nulla. In un attimo fendete ai vostri trentacinque all'ora una fittissima siepe di puntini danzanti, che vi si introducono in ogni orifizio, fenditura, o altra apertura lasciata scoperta, sia essa anatomica o tessile.

Ma soprattutto si infilano a capofitto nel varco di maggiore capienza, quello che - malauguratamente - vi serve per respirare sotto sforzo. Vi ritrovate così a ingoiare dozzine di ditteri nematoceri, senza neppure sapere che cacchio significhi perchè Wikipedia in bici non si può leggere, e voi che avete fatto colazione da neppure mezz'ora siete costretti all'inaspettato spuntino.

Sputacchiando, scaracchiando e bestemmiando siete costretti ad arrestarvi a bordo strada, in un punto peraltro pericolosissimo, e in preda allo schifo più ributtante gargarizzate svelti l'intera borraccia che neppure sull'Izoard a luglio. Un vecchietto con basco e sigaro vi sorpassa lentamente in bici fissandovi sospettoso mentre, con la boccuccia a culo di gallina orientata all'insù, state rumorosamente compiendo i vostri accurati risciacqui. Si allontana scuotendo la testa.

Riprendete alfine il cammino, sperando di reincarnarvi in un batrace.



giovedì 3 ottobre 2013

L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 4: Incomprensioni

Andar per strade è anche una questione di regole.

Regole non scritte, regole scritte, regole rispettate o meno, ma regole. Più o meno.

Se c'è una di queste regole che, dalle mie parti, viene mediamente rispettata è quella dello stop: io mi fermo, tu passi, e poi io riparto.

Ma come in tutte le umane cose, anche questa regola possiede dei limiti. E uno di questi limiti è l'ECCESSO DI CORTESIA, che per definizione non risponde ad alcuna legge intelligibile ed ha la nefasta caratteristica di non essere colto subito.

Immaginate quindi di trovarvi sulla via del rientro a casa, una comunissima strada, un'altrettanto comunissima rotonda, munita di linea d'arresto nella vostra direzione. Pomeriggio d'estate, praticamente nessuno per strada. Siccome siete diligenti (non per primeggiare ed essere ricordati ai posteri, ma per pura sopravvivenza) nonostante la canicola soffocante vi fermate alla linea d'arresto che delimita la rotonda, guardinghi. Un'auto ha infatti impegnato la rotonda e vi predisponete ad attenderne il passaggio prima di ripartire.
Immaginate adesso quell'auto, una sola, unica auto, che SI FERMA NEL BEL MEZZO DELLA ROTATORIA, in modo marcato e repentino, senza motivo apparente.

E vi ritrovate proiettati in una rappresentazione teatrale giapponese.

Voi siete lì, immobili, ad attendere. Anche quell'altro sta lì, fermo, chissà perchè. Perplessità.

Voi non avete intenzione di ripartire (non vi fidate, siete coscienti che le rotonde sono state progettate e introdotte con l'esplicito intento di sfoltire il numero di ciclisti in giro). Ma anche quell'altro non accenna a ripartire.

La canicola sale. Cicale in lontananza. Una mosca si posa sugli occhiali. Lo scorrere del tempo si squaglia, e assume i contorni di un quadro di Salvador Dalì.

Cercate di incrociare lo sguardo del guidatore ma il riflesso corrusco sul parabrezza ve lo impedisce.

Mentre state passando mentalmente in rassegna ogni possibile ragione di una simile sosta (malore, telefonata, mietitura del grano, estasi religiosa), un impercettibile gesto di una mano fa capolino da sopra il cruscotto, ponendo termine alla scena kubrikiana, e invitandovi a passare per primi.

AH, ECCO!!! Ci arrivate con quel paio d'ore di ritardo. Fate "plaf" col palmo della mano sulla fronte gocciolante. Adesso sì!! Si tratta di UN GESTO DI CORTESIA!!

Voi che fareste i salti di gioia per un mese intero se solo vi fosse dato di assistere al rispetto di UNA REGOLA STRADALE CHE FOSSE UNA. Voi che comprereste una pagina di quotidiano per ringraziare, se solo una volta tanto foste trattati da comuni utenti della strada e non, di volta in volta, come personaggi fluorescenti, bizzarri, eccentrici e snob, oppure pericolosi comunisti, o sediziosi rompicoglioni, o come semplici seccature ambulanti che impediscono il sacrosanto fluire delle automobili, un disdicevole imprevisto.

A voi, oggi, tocca subire un GESTO DI CORTESIA.

Uno di quei gesti di cortesia inconsulta, irragionevole e del tutto fuori luogo che normalmente creerebbe un tamponamento a catena, se non di peggio.

Uno di quei gesti di cortesia, per l'appunto, del tutto incomprensibili, e pertanto pericolosi, perchè tendono a passare sopra una regola generale, lasciando il sentore di un improvvido e maldestro tentativo di rimediare a un senso di colpa automobilistico.

Se ci si limitasse a rispettare le regole, il comune buon senso e la convivenza civile, allora sì che filerebbe tutto liscio. E non avremmo bisogno di ECCEDERE con episodi di cortesia.

Ne basterebbe di meno, ma da parte di tutti.

PS: alla fine sono passato io, ringraziando, ma poi scuotendo la testa, incredulo.

lunedì 1 luglio 2013

GUTTA CAVAT LAPIDEM

Per un dilettante allo sbaraglio come me, che non posso vantare di essere stato allevato a sport, alcuni dei "trucchi del mestiere" me li sono dovuti imparare da solo, un pò come se oggigiorno da qualche parte nel mondo nascesse un Neanderthal e si vedesse costretto a ripercorrere d'un fiato e in solitudine tutte le tappe evolutive, dalle schegge di selce al wi-fi, dalla pittura rupestre al calcolo frattale.

Molto ha contribuito quella autentica miniera che è internet, solcando siti specializzati, blog e riviste di settore.

Ma una delle mie personalissime "scoperte dell'acqua calda" che più serve a chiarire cosa io intenda è la cadenza/frequenza di pedalata.

L'ho scoperta tutto da solo, in Corsica, nel 2012, in uno di quei giorni pensierosi in cui non parlavo con nessuno da giorni. Ero all'incirca a un terzo del viaggio, e avevo già fatto conoscenza con i tremendi saliscendi della costa occidentale. In una di queste salite, complici i pedali a scatto su cui erano saldamente agganciate le scarpe, in un momentaneo impeto di incazzatura a causa di un malfunzionamento del cambio, che non mi consentiva di alleggerire la marcia ingranata, cominciai a pedalare con più lena senza poter ovviamente variare rapporto. Con mio enorme stupore, la bici balzando in avanti diventò più "leggera". Il magico fenomeno si ripeté a comando, e notai che mantenendo alta la frequenza - o cadenza - di pedalata (vedi più sotto), questa si manteneva leggera. Mi vennero allora in mente tutta una serie di paragoni, legati al concetto di "impulso" e "impulso specifico", grattando il fondo delle mie scalcinate cognizioni di fisica classica e propulsione aerospaziale, residuato degli studi superiori. Ma senza arrivare a tanto mi bastò pensare ai bimbi che colpiscono col bastone il cerchione di una ruota: per avanzare era sufficiente un minimo sforzo applicato con continuità per più tempo, anziché dannarmi l'anima stantuffando lentamente sui pedali, la bici carica e la pendenza in agguato.
E' questo un tipo di consapevolezza che trova una propria misura grazie ai tanto diffusi ciclo-porno-gastro-pseudo-computerini da manubrio. Ecco, il mio misurava anche il numero di giri di pedale al minuto. E quando hai svariate ore da passare sul sellino, in un passaggio dal panorama un pò noioso e ciclisticamente irrilevante (a dire il vero una rarità in Corsica) ti capita di ingannare il tempo osservando l'andamento di quei numerini che sfarfallano sul mini-display a cristalli liquidi, e cominci a sperimentare e a capire come funziona.
In quel caso, riuscii a fotografare il deciso miglioramento una volta oltrepassate le 75 pedalate al minuto, meglio se 80. Mi impegnai quindi a mantenere la cadenza/frequenza di pedalata attorno a quella soglia, con benefici effetti sulla fatica. Fattore determinante per ottenere la pedalata "rotonda" e distribuire il carico su tutti i gruppi muscolari furono i pedali automatici: ancorando il piede potevo anche "tirare" il pedale in alto, in avanti e indietro e non solamente spingerlo verso il basso.

Nelle ore e nei giorni a seguire, affinai la mia personalissima "scoperta dell'acqua calda" (scoprii solo DOPO che si trattava di una tecnica basilare dei ciclisti sportivi), riuscendo a centrare il tanto agognato valore di 80 al minuto e a mantenerlo con una certa naturalezza.

Da allora ho sempre attinto a piene mani dai trucchi e consigli di chi di ciclismo ne sa più di me, senza snobbare inutilmente ambiti ciclistici a me lontani (come quello da strada.... che però sento lontano ancora per poco!!!).
L'applicazione pratica, senza strafare, di quei trucchi, consigli e tecniche così famelicamente ottenuti è andata a tutto beneficio del mio diretto personale benessere, pedalando meglio, più a lungo, con meno dispendio di energie, meno fatica e minori effetti collaterali muscolo-scheletrici.

Ovvero divertendomi di più, potendomi guardare attorno, e amando ancora di più il ciclismo.




giovedì 27 giugno 2013

SELLARONDA EXPRESS

Siamo in quattro, ma non ci conosciamo tra noi.

Siamo in quattro, i due avanti e io con un altro aggiuntosi dopo.

Infiliamo nel più assoluto silenzio le curve e controcurve strette, il sibilo dei freni unica nota udibile, concentrati per gestire le traiettorie delle nostre bici sparate in discesa a quasi  settanta all'ora.

Nessuno parla, le giacchette antivento dai colori improbabili frusciano schiaffeggiate dall'aria che si fa via via più calda al diminuire della quota, a volte ci disponiamo in fila, a volte a coppie affiancate, a diamante, a quadrato. Un trenino, un nucleo primordiale a geometria variabile, una molecola a legame debole che si sfilaccia e si ricompatta, ma senza disgregarsi.

Ci siamo aggregati per caso, filando giù dai tornanti boscosi che dal Passo Sella riportano a Canazei, da dove sono partito stamattina per partecipare al Sellaronda Bike Day.

Dovevo esserci a tutti i costi, erano mesi che sognavo di essere qui, ventimila e più ciclisti che percorrono l'anello che abbraccia il gruppo del Sellaronda tra Trentino, Veneto e Sudtirolo. E allora mi sono organizzato per passare meno di ventiquattro ore quassù, nottata in campeggio bagnata fradicia, fredda e in gran parte insonne (devo cambiare tenda, la mia sta ormai soffrendo l'usura dei viaggi passati).

Ma la domenica mattina, al risveglio alle sei, ci pensa il massiccio della Marmolada a darmi il buongiorno, stagliandosi ammantato di neve esattamente di fronte alla mia tenda, come apro il tendalino.


Il tepore faticosamente accumulato durante la notte esala in un istante, e non mi resta che muovermi e darmi da fare per mantenermi caldo.

Colazione da lottatore di sumo, un due tre fette di pane generosamente spalmate di Nutella  fanno compagnia allo yogurt e al tazzone di mezzo litro di caffélatte col miele bello caldo.

Non mi rado, sto coltivando una sottospecie di rito scaramantico che se mi lascio la barba alla domenica mattina pedalo meglio (ma sarò scemo?).

Tiro fuori la bici dal bagagliaio, rimonto la ruota anteriore e dò un'ultima occhiata ai freni (serviranno parecchio, oggi!).


Nonostante il calendario cerchi di convincermi che siamo a fine Giugno, non mi lascio ingannare e mi vesto in modo ibrido-modulare sul pesantino andante con brio. Il che non spiegherebbe nulla se non precisassi di essermi vestito "a cipolla", con una maglia da ciclismo a maniche corte e pantaloncini da ciclismo corti, ma arricchiti da una felpa in pile , dalla giacca antivento, zuccotto e collare in pile. Ma la vera new entry sono i coprigambe e le mezze maniche, che all'occorrenza si possono sfilare via (i primi), oppure ripiegare sui polsi (le seconde).

Mentre sono alle ultime battute di preparazione mi accorgo che quasi tutto il campeggio si sta attivando con lo stesso proposito: cominciano infatti a sfilare tanti ospiti a due ruote, equipaggiati alla bisogna.

Esco quindi e mi tuffo nel fiume di appassionati pedalatori, non c'è bisogno neppure di intuire quale sia la direzione da prendere, è sufficiente seguire gli altri.

Dopo neppure duecento metri, si comincia a salire. L'andatura rallenta e fa si che la densità di ciclisti aumenti notevolmente, e mi ritrovo a pedalare a trenta centimetri da perfetti sconosciuti, a respirarne il sudore, a percepirne il respiro. L'attenzione adesso è concentrata a evitare di incrociare il manubrio con qualcun altro, a non urtare le ruote di chi precede, a dare spazio a chi sopraggiunge da tergo con andatura più sostenuta, annunciandosi con richiami che giungono secchi nel silenzio della mattina "Oh!", "Occhio!",  "Attenzione in mezzo!". Dopo pochi tornanti siamo già immersi nelle pendici silvestri, fitte di alberi, che issano verso il bivio tra il Passo Sella e il primo degli impegni, la prima meta, la prima sfida, il primo timore reverenziale: il Passo Pordoi a 2241 metri.


In questo primo tratto, tutti freschi ed entusiasti, le chiacchiere si sprecano, e allora è tutto un vociare tra i gruppi di amatori, riconoscibili dalla stessa maglietta, e chi ha fiato lo usa  anche per parlare, forse per esorcizzare la salita a uno dei passi-monumento. Assisto al variopinto spettacolo di multicolori schiene chine sui manubri, sfottò e chiacchiere in una quantità notevole di inflessioni diverse, tutto il Paese è rappresentato qui, lungo queste strade. Assisto agli amorevoli consigli dell'uomo verso la sua donna su come affrontare al meglio le traiettorie in salita sui tornanti (c'è una precisissima tecnica per farlo, nulla è lasciato al caso in queste condizioni). Mi accorgo - da quelli che cominciano quasi subito a fermarsi in corrispondenza dei tornanti per riprendere fiato - che lungo questi percorsi, sulle Dolomiti, a queste quote, ogni pedalata data male la paghi a carissimo prezzo, e con gli interessi. Mi concentro quindi ancora di più per impostare una salita regolare, senza strappi né fuorisella inutili.
Non mi interessa dare spettacolo, voglio solo divertirmi.

Pedalare in un gruppo stretto comporta soprattutto il percepire le persone in modo estremamente ravvicinato, magari se non in senso spirituale di sicuro in quello spaziale, e quindi fisiologico. I ciclisti infatti sono noti per essere gente piuttosto rude, adusi a mantenere la propria efficienza fisica anche stando sulla strada mentre pedalano, e senza smettere di pedalare: nessuna sorpresa quindi se c'è chi scaracchia, sputa e si libera il naso en plein air, con grave nocumento per la serenità di chi segue in scia. Uno splendido campionario umano. A me tocca un tizio che a stargli dietro prendo più vento che a stargli davanti (*): infilo infatti una sequenza di scorregge appena attutite dall'imbottitura del pantaloncino, preannunciate dal sollevamento del deretano dal sellino. Alla terza schioppettata decido di averne abbastanza, e mi accodo altrove. Credevo di essere ruvido, un pò come tutti i ciclisti: beh, ho scoperto di essere in ottima compagnia.


La salita al Passo Pordoi da Canazei

L'ascesa è scandita dai cartelli che numerano i tornanti, completi di indicazione della quota altimetrica: oltre i 1.800 metri la foresta si dirada e la visuale si apre sulla maestosità delle cime circostanti. Davanti a noi le Torri del Sella si ergono verticali nell'azzurro più azzurro da un bel pezzo in qua, più a destra il Sass Pordoi, a sinistra in lontananza il Sassolungo è già incappucciato di nubi, intrappolate nel suo anfiteatro rivolto a nordovest.




Celebro intimamente il superamento dei 2.000 mt. di quota, sto arrivando più in alto di quanto sia mai giunto in bici da una quindicina d'anni in qua (il mio record è 2.750 metri nella Conca di By, in Val d'Aosta nell'Ottobre 1997, ma non ero allenato, ero completamente in solitaria, sono arrivato lassù del tutto ubriaco di fatica e ipossìa e ho rischiato di pagare carissimo la mia sventatezza, rischiando molto, davvero troppo).

L'arrivo al Pordoi, due ore per ottocento metri di dislivello in dodici chilometri, è preceduto da un vociare in lontananza. Un tappeto di centinaia di ciclisti occupano l'assolato piazzale  della funivia, il cartello marrone indicatore di località è preso d'assalto per la foto ricordo.


Io mi volto indietro, ancora incredulo di essere lì: sotto di me un serpente multicolore si snoda in salita sino a perdita d'occhio in basso. Adesso ho la percezione di quanti siamo, soprattutto se penso che sto osservando solo i partecipanti provenienti da Canazei: le altre località da dove partire, nel circondario del Sella (Arabba, Corvara, Selva Gardena) stanno vivendo in questo stesso istante la medesima scena del fiume di pedalatori che sciàmano, in senso antiorario, per le strade dolomitiche chiuse al traffico.

Sfrutto la pausa per una banana e per bere, mi preparo per ripartire: felpa di pile e giacca antivento per sopportare la discesa verso Arabba, solo da poco illuminata dal sole diretto e pertanto ancora fredda (la recente esperienza mi scotta - ma sarebbe meglio dire mi ghiaccia - ancora).

Attraverso la calca badando a quelli che sopraggiungono da dietro salendo, e comincio a scendere. E' sufficiente la prima rampa e prima del primo tornante raggiungo già i settanta all'ora. Forse è meglio metterci un pizzico di attenzione supplementare. Doso bene i freni per ottenere la migliore decelerazione senza provocare fischi o, peggio, il blocco delle ruote. Occhi dappertutto per evitare i missili che superano a sinistra accucciati a uovo (io sono a sessanta, loro a quanto c§220 stanno andando?). Il circondario è tutto a pascolo, mucche serafiche si fanno i fatti loro sino a bordo strada approfittando dell'erbetta fresca, per nulla infastidite dalle sibilanti dueruote. Il fondo stradale è messo peggio che nella salita (è infatti visibile il confine regionale, dopo il Pordoi siamo entrati in Veneto, con tutto quello che ne deriva in termini di stanziamenti), e le traiettorie devono essere più accurate per non perdere aderenza nelle crepe.


Discesa dal Pordoi ad Arabba



Ad Arabba veniamo accolti dal punto di partenza della Maratona delle Dolomiti, con musica, chioschi di panini e atmosfera da fiera paesana. Non mi fermo, mi spoglio degli abiti caldi e così alleggerito dirigo subito verso la nuova salita Passo Campolongo, seconda prova di oggi.


La salita da Arabba a Passo Campolongo


Che a dire il vero arriva quasi subito, il dislivello da superare è di soli duecento metri e in poco tempo è fatta, ferma restando la foto commemorativa.


La discesa dal Passo Campolongo a Corvara in Badia


Mi rivesto nuovamente. Anche lungo la discesa verso Corvara in Badia le velocità sono interessanti, e se possibile le condizioni della strada peggiorano ulteriormente. Passo su una buca nell'asfalto ai 67 all'ora, incassando una botta che spezza il supporto del GPS, che vola letteralmente per aria, trattenuto dal laccio che ho previdentemente avvolto al manubrio (mi è già successo in passato di giocarmi il supporto, solo che allora il GPS volò per strada e solo la fortuna volle che per un solo istante non passassero autoveicoli... Ah, quanto insegna l'esperienza...).


A Corvara, in un comodo piazzale di parcheggio, sosto per pranzare e per riscaldarmi un pò. Mi guardo attorno e penso che i ciclisti sono proprio strani, con la loro propensione ad annusarsi guardandosi le bici, osservandone i dettagli, scrutando l'un l'altro accessori e abbigliamento. C'è chi chiama gli amici, sparpagliati da qualche parte sul percorso, ed è tutto un rincorrersi telefonico di "Dove siete?", "Quale avete fatto?", "A che punto state?".

Mi chiedo quale bizzarra visione si abbia del coloratissimo fiume di ciclisti se osservati dall'ovovia che si stacca poco lontano verso la cima del Gruppo Sella. Oppure quanto darei  per dare un'occhiata dall'alto con l'elicottero che di tanto in tanto tocca e riparte dalla vicina elisuperficie, portando i turisti a fare foto.

Finita la pausa riparto, per la concomitante Maratona delle Dolomiti è stata allestita una festa con musica dal vivo, e c'è una presentatrice appollaiata su una bassa staccionata che saluta i ciclisti che passano. Siccome in Val Badia a certe cose ci tengono, hanno pure allestito un ciclopico arco gonfiabile con un'altrettanto gigantesca bicicletta celebrativa dell'evento.





Salita al Passo Gardena


La salita al Passo Gardena, che sancisce lo sconfinamento in Sudtirolo, si fa sentire subito. Sono a metà strada, e il tracciato si dimostra impegnativo non tanto per la  pendenza quanto per la sua lunghezza. La dimostrazione sta nel fatto che adesso sono tutti in silenzio, le chiacchiere azzerate, chini e concentrati sui manubri. Alle nostre spalle si apre uno scenario incantevole sulla Val Badia, sempre più in basso, da cui risale la corrente lenta e continua di ciclisti lungo la strada curvilinea.





Adesso il cielo è oscurato di nubi, la temperatura scende. Siamo sul versante in ombra del Gruppo Sella, alla nostra sinistra, che mostra tutto un altro aspetto: gole, rientranze, pareti frastagliate, guglie rosacee alla sommità delle quali si scorgono i camminamenti e le passatoie delle ferrate in quota. Una cascata sorge altissima da un nevaio e precipita per centinaia di metri sulle sottostanti pietraie.

Fedele ad un fenomeno già sperimentato durante i miei viaggi in bici, la mia pedalata rende meglio nel pomeriggio che al mattino: riesco quindi ad imprimere un buon ritmo che mi consente di sopravanzare addirittura molta gente, e di accodarmi a un duo di stradisti dall'aspetto assai tonico e allenato.

All'arrivo sul Passo Gardena la folla è così tanta che manca lo spazio in strada. Dopo un paio di foto e la nuova vestizione non mi trattengo molto, anche perché sto continuamente scrutando il cielo e temo l'arrivo della pioggia (che a 2200 metri di quota ha l'antipatica tendenza  a tramutarsi in NEVE).









Discesa dal Gardena


Mi lancio quindi per la terza discesa del giorno, quasi rettilinea perchè corre sul lungo fianco nordoccidentale del Sella, e dominata davanti a noi dal Sassolungo incappucciato di nubi. E' un tratto facile e veloce, con l'unica caratteristica di scendere poco di quota e quindi di mantenersi a temperature piuttosto basse. Soffro infatti un pò il freddo e cerco di coprirmi meglio che posso.

Al bivio per Selva Gardena mi districo tra chi sosta per spogliarsi prima della nuova ascesa al Passo Sella, e vado a compiere la stessa operazione un pò più avanti.


Salita al Passo Sella


Anche questa salita è un pò lunghetta, ma credo sia un effetto della stanchezza che comincia a farsi sentire. Scende qualche gocciolina, ma nulla di grave. Intanto il serpentone dei pedalatori incalliti - per motivi che non colgo - si sta diradando, e siamo in pochi per strada adesso. Capisco l'antifona quando trovo un bailamme al Passo Sella: si prolungano le soste, e c'è una folla esagerata al rifugio. Solito assalto al cartello per la foto ricordo, gruppi che festeggiano l'ultima salita, battutacce da caserma e schiamazzi molesti.  Un gruppetto di rocciatori di ritorno da un'arrampicata osservano con malcelato disappunto la violazione delle solitamente silenti e rarefatte lande d'alta quota. O forse è solo invidia.




Mi riavvio ben cosciente che non è ancora finita, il fiume di gente si è scremato notevolmente, e adesso sto sfrecciando in discesa lungo le pendici boscose ai piedi del Sella, con i miei tre sconosciuti compagni di strada e nessun altro. Stiamo per uscire dalla riserva indiana creata appositamente per noi oggi, con la chiusura al traffico automobilistico dell'anello che gira attorno al Sella.


Discesa dal Passo Sella e ritorno a Canazei













Rientro in paese, sono soddisfattissimo dell'esperienza. varcando il portale di ingresso al campeggio non trattengo un sorriso, e blocco il GPS sui 61 km percorsi

Non sono stato neppure lì tanto a chiedermi se ce l'avrei fatta o meno.

Dovevo esserci, l'ho fatto e basta, mi sono divertito. Ho imparato a conoscermi meglio mettendomi alla prova.

Non sono da solo, e da oggi io sarò anche qua.







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(*): questa non è mia, è del Maestro Eterno e Assoluto Gianni Mura. Si adattava alla perfezione, e chi l'ha vissuto sa cosa significa.....








venerdì 14 giugno 2013

AUTOMAZIONE UMANA



Talora mi accade di avvertire lo scorrere del tempo come un ticchettìo di lancette. Solo che le "lancette" non sono le due bacchette roteanti sul quadrante di un orologio, assomigliano piuttosto ai personaggi dell'orologio della Cattedrale di Strasburgo, che compiono sempre lo stesso giro a beneficio dei turisti.

E' questa l'impressione che mi dà l'osservazione della strada ogni mattina, e lo scoprire le stesse persone compiere la stessa operazione nello stesso luogo allo stesso momento.
Non è come può essere, ad esempio, incontrare le stesse persone alla fermata del bus o del treno: lì c'è una costrizione temporale dettata da orari di arrivo e partenza.
In questo caso no, mi dà più l'impressione di assistere a un presepio meccanico, una casualità automatizzata che mi crea una punta di disagio se raffrontata al concetto di "libero arbitrio" e "casualità degli eventi".

In alcuni momenti di deja-vu particolarmente intenso mi sento come Bill Murray in "Ricomincio da capo", ma senza la marmotta.

La varietà di personaggi non manca di certo:
  • l'attempato signore canuto con occhiali sullo stradone appena parto, che osserva tutto con sguardo da gufo impagliato e ogni mattina è come se mi vedesse per la prima volta;
  • un altro signore canuto con occhiali però presso il bar di Civesio, mai visto effettivamente entrare o uscire, sta lì e basta;
  • la donna con gli occhiali e tutona da ginnastica che pascola il suo bruttissimo cane nero sul cavalcavia Parri verso San Giuliano;
  • l'arancionissimo furgone TRACO che passa alla stessa ora nello stesso tratto di strada che costeggia l'aeroporto di Linate, sempre doviziosamente sfiorandomi con la fiancata ai novanta all'ora;
  • il signore dalle fattezze orientali che accende il motore della sua Opel Corsa nera parcheggiata sempre nello stesso posto e nello stesso modo fantasioso (recentemente deve essersi accorto anche lui della comicità della cosa, e come mi vede si mette a ridere);
  • l'ignaro benefattore con scooter rumorosissimo a 25 all'ora, nella cui scia mi infilo e mi lascio risucchiare per centinaia di metri tra la rotonda di San Giuliano e quella di Metanopoli (poi io giro a destra, lui va dritto e il trucco finisce);
  • lo stesso gregge di caprette nane (giuro, ho le foto) che bruca sull'argine del Lambro guardate a vista dal loro giovane padrone;
  • il signore palesemente sudamericano che carica il bagagliaio della sua scassatissima monovolume verde metallizzato, a Ponte Lambro, nella cui nube di motore acceso mi infilo regolarmente, per la gioia dei miei alveoli polmonari.
E poi c'è lui, il Baffo. Il mio preferito.

Il Baffo è un ignoto ciclista di mezza età, se non molto oltre, dai connotati spigolosi e affilati, di una magrezza inquietante come tutti i ciclisti, capellone e totalmente canuto sotto il casco, e dall'apparente statura di due metri.
Sfoggia una paio di mustacchi di eguale tinta e di proporzioni tali da  far fallire qualsiasi tentativo di scatto o accelerazione, talmente sono ingombranti e resistenti all'aria.
Il Baffo lo incontro in senso inverso, al pomeriggio, quasi sempre nella zona di Sesto Ultieriano-Civesio, e pertanto anche lui alle prese con autocarri e furgoni che gli sfrecciano a dieci centimetri.
Pedala serafico con un movimento lungo e rotondo delle sue lunghe leve, le spalle ossute ripiegate e storte sul manubrio da strada in presa alta alle manopole, il suo equipaggiamento mediamente adeguato, no occhiali né guantini.
Il suo pacioso sguardo fisso avanti (non ha mai accennato minimamente ad accorgersi di me) mi comunica eleganza, di quel tipo di eleganza strafottente di chi sa di avere raggiunto i suoi traguardi e di starsi godendo le meritate ferie di fine vita. Quell'eleganza menefreghista di chi non ha neppure bisogno di sembrare (figurarsi esserlo) aggressivo.
Ecco, il Baffo è il mio preferito perchè scombussola quel clima di automazione umana creato dai gesti ripetitivi dei personaggi di prima.
Lui no, Lui fa sempre quella stessa cosa nello stesso momento e nello stesso luogo perché Lui il Suo Tempo lo governa, lo plasma. Lui la strada non la segue: è Lui che la crea al Suo passaggio, lasciandone poi beneficio agli altri.

Spero ogni volta di vederlo, e ogni volta che lo incrocio mi convinco con sollievo che c'è ancora vita, e speranza, su questo pianeta.