giovedì 20 febbraio 2014

DIARIO DI VIAGGIO CORSICATOUR - 18-29.06.2012



Il mio primo viaggio al di fuori dell’Italia, anche se praticamente sotto casa.

Con questo itinerario, nella seconda metà di Giugno 2012, ho voluto inaugurare la nuova stagione, a pochi mesi dalla chiusura di quella precedente con la Transardinia Northeast di fine Settembre 2011. Ciò dimostra una volta di più (qualora ve ne fosse ancora bisogno) che il viaggio in bicicletta produce gli stessi effetti delle endorfine, e crea forte dipendenza.
Ho scelto la Corsica per una forma si assimilazione geografica e culturale alla Sardegna, anche se non conosco un’acca di francese, con la segreta speranza di capire e riuscire a farmi capire ugualmente…
Durante l'inverno 2011-2012 ho speso parecchie ore a documentarmi sui diari di viaggio di chi mi ha preceduto, doviziosamente postati sul sito dell’Associazione Italiana Il Cicloviaggiatore, alla quale mi vanto di appartenere. Però, nonostante la pianificazione certosina, già l’inizio ha rischiato di essere un po’ rocambolesco: dovendo - per sopravvenuti impegni familiari - spostare di una decina di giorni la data di partenza inizialmente fissata l'8 giugno, ho scoperto che come conseguenza cambiavano orari e porti di partenza dei traghetti, e quindi anche gli orari dei treni (già rarissimi) per raggiungere il porto. Ho corso così il rischio di raggiungere il posto sbagliato nel giorno giusto (o viceversa, non so). Già immaginavo il mio suicidio rituale, la sera, in lacrime sulla banchina desolatamente vuota. Alla fine son partito, non senza un ulteriore imprevisto familiare della sera prima che, invece, avrebbe dovuto più saggiamente indurmi a ritardare di qualche giorno il viaggio, ma non ce l'ho fatta a trattenermi.

GIORNO 1: 18.06.2012 - Casa-Porto Vado

La partenza cade di lunedì e, per essere ancora più avventurosa, avviene nel bel mezzo di un anticiclone torrido, il primo di quelli che, con vezzo americanofilo, vengono battezzati per nome. A me tocca "Scipione", e farne la conoscenza non è affatto un piacere. Mi preoccupa non poco, ma forse mi sto facendo suggestionare dalle roboanti esagerazioni giornalistiche. Fatto sta che, con un solo cambio Locate Triulzi-Pavia, con uno dei ormai rarissimi treni interregionali arrivo direttamente a Savona, da dove mi imbarcherò per Bastia. Mentre salgo a Locate con bici, bagagli, annessi & connessi mi imbatto in Sara, una vicina di casa del tempo che fu, che mi saluta e in una manciata di secondi di spiegazione mi augura buon viaggio. A Pavia il giovane capotreno mi aiuta simpaticamente a sbarcare (un segno dei tempi che cambiano?). Nonostante la coincidenza di un'ora mi lasci il tempo di riflettere su ciò che sto facendo, insorge un'insopprimibile ansia mista a sensi di colpa che mi rovinano tutto il piacere del viaggio. Ciònonostante non desisto dal proposito e monto sul regionale veloce per Savona. 

La stazione di arrivo è deserta, e per trovare la strada attivo il GPS: mi attendono circa sette chilometri di Aurelia, farciti di tensione per i racconti del terrore che aleggiano sul conto di questa temutissima statale. Fermandomi a chiedere informazioni per strada sembra invece che esista una valida alternativa alla morte per investimento, sotto forma di corsia ciclabile. Ne percorro infatti un tratto, ma questa si rivela la solita pacchianata da amministrazione locale ad uso esclusivo degli abitanti della città e forte connotazione elettorale: la ciclabile si estingue infatti nonappena usciti dal capoluogo, lasciando inutilizzati chilometri e chilometri di rettilineo parallelo all'Aurelia. In un momento di pausa mi fermo ad un parchetto pubblico e incontro un altro cicloviaggiatore con carrellino BoB, comodamente assiso sotto un albero e tutto intento a consultare il suo smartphone.




Si chiama Marco ed è artista di strada itinerante in bicicletta, sta girando lungo la costa con bici, sacche e attrezzatura sul carrellino; si sta riposando un pò prima degli spettacoli del pomeriggio e della sera. Gli scatto una foto e altrettanto fa lui, e la posterà sul suo blog “Pacomachine”.


(Photo credit: Pacomachine)


Arrivo tutto sommato vivo e vegeto al porto di Vado verso le 18, con una temperatura difficilmente descrivibile a parole e col cielo che si oscura di alte nubi convettive.


Faccio il biglietto, mi concedo una cabina singola (mai vista in vita mia, io addestrato a pane e Tirrenia...), mangio un boccone, la nave arriva alle 20. Nell’attesa ne approfitto per incontrare un mio cugino che non vedevo da anni, dopodiché mi imbarco e si salpa alle 21.30. Lo standard abitativo a bordo del traghetto Corsica Ferries è di livello non comune, rasenta il lusso. Sospetto sin da subito, osservando i passeggeri, che cotanto nitore sia semplicemente il risultato del maggiore rispetto portato dalla clientela, mediamente straniera pertanto mediamente più civile. Dopo essermi stabilito in cabina e aver finito di mangiare il rimanente mi reco al bar della piscina, dove ci sono sedie sdraio a disposizione, e con un gelato e la prima birra Pietra - di una futura lunga serie - pongo fine alla giornata. Non sono tranquillo, e quel che è peggio dentro di me so anche il motivo. Tutti in branda.



GIORNO 2: 19.06.2012 - Bastia-Calvi



Sonno notturno spezzato a metà: l’inquietudine mi gioca un bruttissimo scherzo facendomi riaprire (meglio dire spalancare) gli occhi alle 3, senza possibilità di riprendere sonno. Passo lunghi minuti ad osservare il mare di inchiostro venato di spuma scorrere sotto l'oblò della cabina. Mi ritrovo a sbarcare alle 08.30 con le scimmie nel cervello e in preda ad un inusuale quanto incoercibile nervosismo. Il famoso sole della Corsica (che, stando alla guida Routard, comanda il clima locale per più di 300 giorni l'anno) mi acceca sin da subito all'uscita dalla pancia del traghetto. Precipito immediatamente nel traffico dell’ora di punta, cerco di uscirne incolume con l’ausilio del GPS, ma l’accrocco mi dà indicazioni inizialmente imprecise, non so se per la mappa inadeguata o perché irrimediabilmente contagiato dalla mia ansia. Vago in stato catatonico cercando la giusta direzione, sbaglio strada almeno una mezza dozzina di volte, ritrovandomi a percorrere calli caratteristiche, strette e cadenti. Sono talmente rimbambito che preso dalla frenesia di trovare la strada giusta non mi soffermo a riprendere le immagini del nucleo storico di Bastia, della torretta del sommergibile Casabianca (che al temine della 2a G.M. sbarcò i primi resistenti Corsi) resa monumento, l'enorme piazza principale, immagini di cui conservo vividi ricordi. Fluttuo senza senso per quasi un’ora come una falena che gira e sbatte su una lampadina. Per ristabilire il giusto ordine di priorità opto per fare rifornimento per la giornata, fermandomi ad un market e ritrovandomi a 200 metri dal mio iniziale punto di partenza. Alle 09.30 imbrocco la direzione giusta e, per la prima di un’infinità di volte nei giorni a seguire, si sale. Una sequenza di curve alberate punta verso la sommità della dorsale che - scendendo  da nord - forma l'ossatura del "ditone" caratteristico dell'isola. Dopo un pò incontro un altro ciclopazzoide che, fermo a lato in posizione ombreggiata, sta facendo merenda. E’ francese della Normandia, anche lui sbarcato a Bastia la sera precedente, e proveniente dalla traversata della Francia da Nord a Sud nelle due settimane precedenti. Sfoggia infatti la tipica abbronzatura color rosso fiorentino tipica di chi pedala sotto il sole per giorni. Proseguiamo insieme, la cosa mi tranquillizza un pò. Lui va più veloce di me, ha meno bagaglio ed ha già la gamba sciolta; nel tentativo di stargli dietro perdo l’occasione di fotografare i primi scorci sensazionali che si offrono verso sud mano a mano che saliamo: gli stagni, la costa pianeggiante, le aree umide. Scolliniamo dopo varie soste alle fontane lungo la via per fare pieno di acqua, la temperatura è ormai altissima e fino a quando non raggiungiamo la vetta non tira un filo di vento. Il Francese mi perde e mi attende un paio di volte prima di raggiungere San Florian, dove ci fermiamo perché lui ha bisogno di una farmacia (lo chiamo Il Francese perché, come mi accorgerò solo dopo molto tempo, ci accomiateremo senza neppure avergli domandato il nome). Come affrontiamo la salita al Deserto delle Agriate il Francese mi semina definitivamente; decido allora di prendermela con filosofia e di seguire il mio ritmo. Incrocio in senso inverso una ciclocoppietta transalpina che mi dà la lieta novella: entro due chilometri la strada spianerà, e diventerà più dolce. Mi godo così la pedalata con vista panoramica sulle verdeggianti alture delle Agriates, chiamate "Deserto" per ignoti ed incomprensibili motivi. A causa del caldo devo stare attento a idratarmi e alimentarmi con continuità. La strada è trafficata ma gli automobilisti hanno uno stile di guida attento ed educatissimo, non ti sfiorano sfrecciando come da noi in Italia imbroccando la distanza a occhio e croce. All’occorrenza, prima di sorpassare (incredibile a dirsi), rallentano accodandosi alla bicicletta sino a quando la strada non offra maggiore visibilità, o divenga più larga, o il traffico in senso inverso sia passato. Nessun azzardo, nessuna fretta, nessun rischio inutile: la bici è evidentemente considerata come un altro veicolo e per conseguenza il ciclista è un altro utente a pieno diritto con cui condividere la strada. Al termine della discesa dalle Agriates intravedo in lontananza il mio battistrada francese, in un lungo tratto rettilineo della strada che conduce verso ovest, divenuta larga e scorrevole. Nel calore del pomeriggio,  quasi controsole, scorgo da una certa distanza la sua sagoma tremolante deviare a destra verso la spiaggia, e decido di seguirlo a sua iniziale insaputa. Lo raggiungo sull’arenile, adagiamo le bici per terra sul mio tarpaulin, breve rinfrescata alle gambe, spuntino con frutta e si riparte. Il Francese ha intenzione di fermarsi per oggi a Ile Rousse, come mèta del giorno io invece ho Calvi e tiro dritto fino al tardo pomeriggio. Passo per un centro commerciale che avevo puntato in fase di programmazione, quasi mi sento male per il caldo indescrivibile che esala dall'asfalto appena rifatto - quindi nero pece - del parcheggio. Approdo al campeggio, un posticino tranquillo popolato di famigliole, mi scelgo una piazzola seminascosta nel folto della boscaglia e procedo con le pratiche della sera: cena-bucato-igiene personale.

Distanza tappa: 99 km
Distanza totale: 99 km
Tempo impiegato: 6h15'
Velocità media: 16 km/h
Ascesa cumulata tappa: 1.352 mt
Ascesa cumilata totale: 1.352 mt
Quota massima: 555 mt.



GIORNO 3: 20.06.2012 - Calvi-Porto







































Con animo ancora irragionevolmente inquieto (eppure non è il mio primo viaggio, sta andando tutto benone, ma non sto bene con me stesso...), mi incammino verso Porto che è prestissimo. Ciònonostante l'afa è già sostenuta, ed il cielo è una cappa plumbea. Anziché tagliare per la strada più diretta attraverso la città, scelgo la litoranea che gira da nord attorno al suo nucleo storico, quest’ultimo arroccato su un’altura.


Il centro storico di Calvi


Per un istante medito di addentrarmi alla punta di Capo Biglione, ma rinuncio. La strada si fa tortuosa e si alza, regalando scorci spettacolari da mezza costa, tagliando a metà le pendici fittamente ricoperte di macchia mediterranea. Allo stesso tempo il manto stradale si fa più dissestato e mostra segni di abbandono.


Capo Biglione, a sud di Calvi

Più avanti decido di fare pausa-pranzo deviando per Galèria. Passo un'oretta sul ciglio della piccola (e sporcata dai cani) scarpata erbosa che sovrasta la spiaggia, poi caffè e toilette al retrostante baretto. La deviazione mi costa un supplemento non pianificato di una decina di km sulla percorrenza di oggi. Il prossimo obiettivo è il Col de Palmarella, al quale si arriva dopo una salita di 18 km, la terza del viaggio. Con mia enorme sorpresa scopro che il tracciato stradale supera il dislivello fino al passo con strepitosa regolarità: una gradevole e costante pendenza infatti lascia quota zero senza strappi, muri o discontinuità altimetriche. Chi ha pensato e costruito questa strada sapeva il fatto suo. Mentre mi godo la piacevole ascesa tra pendii boscosi passo su uno degli innumerevoli ponticelli in pietra che scavalcano i corsi d'acqua. La mia attenzione viene attirata da frizzi & lazzi che riecheggiano da sotto. Fermandomi a sbirciare dal parapetto scopro così una famigliola francese che sta terminando di fare il bagno nel torrente sottostante; in due secondi netti decido di seguire il loro esempio per lenire l'afa. Lascio la bici per strada accostata alla sponda in pietra del ponticello e mi calo giù dalla riva, lasciando spazio ai francesi che nel frattempo stanno andandosene. La mamma del gruppo mi indica con un sorriso l'accesso più comodo all'acqua, al di là di un cespuglio. Mi denudo senza ulteriori indugi e mi immergo in una piscina naturale in granito scavata dal torrente. Mi sciacquo, mi rinfresco, mi bagno, mi spruzzo, in sintesi mi riprendo un po’. 


Riprendo la via dopo mezz'oretta di abluzioni, terminando l'ascensione attorno alle 16.30 sul Palmarella, che offre una magnifica vista del mare da 400 metri di quota, dal versante opposto di un amplissimo promontorio. Mi trattengo per uno spuntino godendomi il venticello. C'è parecchio traffico, sul valico c'è un piazzale spaziosissimo e frequentatissimo di turisti, si ferma anche un bus farcito di comitiva francese.


Comincia dunque la discesa, lunga e sinuosa verso la costa. Mentre già pregusto l'arrivo trionfante a Porto in velocità e a mani alzate tra ali di folla osannante, il destino mi riserva un'ultima salita, ma stavolta cattiva, che mi finisce. Sono solo parzialmente confortato dalla veduta meravigliosa che si apre al culmine dell dislivello. Giungo quindi alla méta svuotato e liofilizzato, ma soddisfatto. Sosto al locale market per procacciarmi il cibo, e come arrivo in campeggio scelgo la piazzola e ceno seduta stante, su una scala in cemento, senza neppure montare la tenda. Con lo stomaco finalmente pieno, mentre mi abbandono a un paio di minuti di stasi cerebrale, in procinto di essere sopraffatto dalla stanchezza del giorno, vengo avvicinato da una vicina di piazzola straniera che mi invita a cenare col suo gruppo. Accetto, ma solamente per la compagnia, spiegando di avere già mangiato (è un duro lavoro ma qualcuno lo dovrà pur fare). Mi unisco alla loro tavolata, sono un gruppo di escursioniste tedesche - una più racchia dell'altra, così, giusto per la fredda cronaca - e quello è il loro campo-base in questo campeggio. Come mi spiega il loro capo-comitiva, si tratta di un trekking organizzato, escono una volta al giorno per le escursioni in montagna, e per il resto tutte le attività al campo-base sono svolte in comune. Mi raccontano di quanto sia difficile conciliare le esigenze di tutti i frequentatori del campo in un tale particolare contesto comune, in particolare perché si tratta nella quasi totalità dei casi di estranei che non si conoscono tra loro prima di incontrarsi lì. Oggetto di impietoso sfottò è una studiosa di botanica che si ferma ad osservare accuratamente qualsivoglia filo d'erba, infiorescenza, stame o pistillo, rallentando il gruppo. Si ricomincia con una minestra di patate e alloro, declinare fa brutto. Tra un timido tentativo di rifiutare e l'altro finisce che ceno una seconda volta, però cibo caldo. Al termine si è fatto buio e io devo ancora montare l'accampamento. Saluto, ringrazio sentitamente e prendo congedo con un totale di mezzo chilo di cibo nello stomaco. Mentre faccio le mie cose si alza un ventaccio fortissimo e caldo, è l'anticiclone che se ne va con un ultimo rabbioso colpo di coda. Vorrà dire che stanotte il bucato si asciugherà in fretta.

Distanza tappa: 92 km
Distanza totale: 191 km
Tempo impiegato: 5h30'
Velocità media: 17 km/h
Ascesa cumulata tappa: 811 mt
Ascesa cumulata totale: 2.163mt
Quota massima: 408 mt.



GIORNO 4: 21.06.2012 - Porto-Ajaccio









































Il risveglio di oggi è salutato da una temperatura più umana. Esaurito il cerimoniale mattutino mi avvio che però la lucidità mentale è rimasta ripiegata nel sacco a pelo: mi ricordo infatti di avviare la registrazione GPS solo dopo parecchi km dalla partenza...




Per uscire dalla baia di Porto, neanche a dirlo, bisogna salire. La giornata - ciclisticamente parlando - inizia infatti affrontando una bella rampa ascendente che si arrampica aggirando la parete sud della gola che racchiude il paese. Ma ciò che toglie letteralmente il fiato mentre si sale non è la fatica, ma il panorama. Il forte vento della notte passata ha schiarito l'aria, che adesso è più trasparente e consente di spingere lo sguardo più in là.


La torre di Porto vista dal lato sud della valle
La Baia di Porto vista da un pò più in su




Purtroppo nonostante la sua forza il vento non ha dissipato la mia apprensione e le mie incertezze, per cui non riesco ad essere completamente spensierato e vivere l'esperienza con pienezza. Ripartono quindi i sali-scendi, che prima di Piana si tramutano in sali-e-basta. Durante una pausa idraulica mi vedo sfilare due pionieri con le recumbent in assetto da viaggio. Mi unisco a loro e facciamo due chiacchiere, sempre salendo in mezzo a boschi fittissimi e traffico in aumento. Sono una coppia canadese e stanno facendo il giro dell'isola. L'aumento del traffico e le auto ferme a lato della strettissima strada ci informano di essere arrivati ai (celeberrimi, come scoprirò) Calanchi di Piana, sito iscritto nel patrimonio UNESCO. 





I maestosi pinnacoli di roccia rossa torreggiano sulla minuscola strada sottostante, e proseguono in basso verso il mare. La vista è magnifica. I nordamericani, anche a causa del fatto che molto probabilmente fermarsi e ripartire con le recumbent non deve essere così agevole, non si fermano per godersi il panorama, e così mi sgancio e li lascio al loro destino (tanto comunque mi stavano già dando la birra). Mentre sono fermo a fare fotografie vengo avvicinato da un certo numero di persone che manifestano ammirazione. Un vecchietto più entusiasta degli altri vuole sapere tutto del mio viaggio, ma essendo francese ne intuisco la richiesta senza poter ricambiare in modo comunicativo. Il di lui figlio però provvidenzialmente conosce l'inglese, e traduce. All'atto di ripartire l'attempato supporter prorompe in un accorato applauso e "bravo" e "bon courage": se non fossi riuscito a filmarlo con tanto di audio sembrerebbe una frottola. Allontanandomi dai Calanchi di Piana mi rimane però appiccicato addosso uno sgradevole retrogusto di affollamento fuori controllo e traffico automobilistico a guastare l'incanto del luogo: il sito è raggiungibile solamente per mezzo di una stradina stretta, ricavata nella roccia rossa, letteralmente ingolfata di ogni genere di autoveicoli, bus che fanno manovra per scaricare turisti, camper che cercano di posteggiare, furgoni dei fornitori, auto private che impazzano. Il risultato è un vicendevole intralcio, un bailamme di clacson in corrispondenza delle curve, viavai di pedoni che schivano specchietti e paraurti. Non manca neanche un eccentrico svizzero che incontro scendendo, mentre lui sale col suo trattore rosso fiammante e roulotte a rimorchio: non ho purtroppo la prontezza di fermarmi a fare una foto, ne sarebbe valsa la pena. Proseguendo mi fermo a Piana per uno spuntino, lo spiazzo principale con gli immancabili baretti è affollato di ciclisti. Segue una discesa infinita, quasi un'ora senza girare un pedale. La strada è un susseguirsi di curve e controcurve sul fianco di una vallata, a tratti vengo affiancato da vicino da una coppia di grossi rapaci che stanno risalendo la china veleggiando sospinti dal vento. Ad una fontana per una pausa idratante incontro una coppia di anziani camperisti toscani che sostano all'ombra di un piccolo boschetto. Lui mi rivolge la parola per primo, palesemente senza sospettare la mia italianità: parla infatti con un paio di tacche di volume di troppo, come se stesse parlando a un deficiente. E, come visto altre volte, trasecola e sbigottisce scoprendomi compatriota: un'ulteriore conferma di quanto in Italia il cicloviaggio sia un universo sconosciuto ai più. Per sfuggire al caldazzo meridiano faccio pausa pranzo sotto il portico di un minimarket, mi rinfresco all'ombra e schiaccio anche un sonnellino.


Si è alzato un venticello ma la temperatura è da massima attenzione. Oltrepassato il Golfo di Sagone affronto l'importante salita alla Bocca di San Sebastiano: il venerato personaggio, con le sue ben note vicende, risulta assai emblematico dello stato d'animo con cui giungo lassù.


Il martirio di San Sebastiano, emblematica immagine
del mio stato al termine della salita alla omonima Bocca
Mi lancio in discesa verso Ajaccio, e in lontananza scorgo nettamente una cappa di umidità, smog e schifezza ristagnare al di sopra dell'omonimo Golfo. Purtroppo non posso tirare un'apnea di 15 ore, quindi non mi resta che andare avanti e respirarmela tutta. Mi tuffo quindi in piena ora di punta come se non ci fosse un domani; diretto verso il camping oltrepasso dozzine di auto incolonnate, e mi becco il conseguente aerosol di gas di scarico. Avverto gli alveoli polmonari rattrappirsi. Sosto ad un market per fare provviste, vengo fulminato dai banchi frigo, questo uscire e rientrare dai super-market super-climatizzati tutto sudato al termine della giornata mi sta fregando. Arrivato al campeggio (ovviamente salendo) il benvenuto è offerto dalla anziana titolare, tra le pieghe della cui rocciosa rudezza solo chi vanta origini barbaricine come me può addirittura notare una dolcezza di fondo. Il campeggio è alle propaggini nord-occidentali della città, fuori da direttrici principali e perciò assai quieto. Mi piazzo dunque e mangio, sventando un proditorio tentativo di pisciarmi la bici da parte di un cane, ma subendo quello di un gatto ai danni della tenda. Non è un caso che io NON sia un sostenitore dell'ENPA. Dopo le faccende serali faccio un tentativo (inutile) di connettermi al wi-fi del campeggio, ma domani è un altro giorno e si vedrà (O. Vanoni).

Distanza tappa: 80 km
Distanza totale: 271 km
Tempo impiegato: 5h15'
Velocità media: 15 km/h
Ascesa cumulata tappa: 1190 mt
Ascesa cumulata totale: 3.353mt
Quota massima: 494 mt.



GIORNO 5: 22.06.2012 - Ajaccio-Propriano




































Ennesima notte inquieta. Mentre smonto e carico il ciclomezzo scopro che i vicini di piazzola sono una coppia francese con una bimba piccolissima e biondissima, che hanno appena iniziato la loro esperienza cicloviaggiatoria con tanto di carrellino a rimorchio. Lascio loro il mio latte a lunga conservazione, non l'ho consumato tutto e mi pare una bestemmia buttarlo, facciamo due chiacchiere e scambiamo qualche consiglio sul percorso (sono sbarcati ieri direttamente ad Ajaccio dalla Francia ed è il loro primo giorno, sono diretti a Nord). Rimango letteralmente di stucco osservando la pieghevole BTwin del papà, e segretamente auguro loro ogni bene sapendo quale genere di salita li attenda nelle prossime ore. Per uscire dal capoluogo riesco ad evitare l'ora di punta del mattino (mi è bastata quella del pomeriggio precedente) e costeggiando il lungomare mi butto a capofitto nell'unica strada che porta a sud: una specie di tangenziale a quattro corsie che gira attorno all'aeroporto, con limite ai 90 puntualmente sbriciolato, chiusa ai lati da guard rail schiacciacristiani. Per qualche chilometro mi tramuto in una specie di ibrido uomo-bici, un unicum chiuso in una bolla sensoriale unicamente concentrata sulla pura sopravvivenza. Meno male che però ogni tanto c'è un pubblico amministratore che (all'estero) è a conoscenza dell'esistenza dei ciclisti, e redige un requisito negli appalti pubblici che tenga conto anche di chi NON usa l'auto. Arrivato all’imbocco di un viadotto trovo infatti un doppio cartello: il primo indica il divieto di transito alle biciclette, il secondo indica invece il percorso alternativo a queste riservato per giungere dalla parte opposta. Vengo così dirottato su una paciosa stradina collaterale, e con poco ulteriore sforzo raggiungo l'amena località di Porticcio.




Mi fermo per rifiatare, mi rendo ormai conto che - ciclisticamente parlando - per poter godere appieno della Corsica è imperativa un'accortissima gestione delle energie e dell'alimentazione. In ossequio a tale principio consumo uno spuntino a base di frutta sulla passeggiata prospiciente la spiaggia, mentre il viavai della tarda mattinata procede sereno, l'età media dei passanti nettamente polarizzata tra infanzia e senilità. Sono oggetto di attenzione e commenti da parte degli attentissimi francesi, sempre molto sensibili alla bicicletta, ma purtroppo la barriera linguistica è insormontabile. Si avvicina una coppia di anziani fratelli, uno dei quali dotato di due ruote in più delle mie, sospinto dall'altro sulla passerella in cemento. Assisto completamente allibito alla più amorevoli delle spiegazioni: il fratello normodotato illustra al fratello quadriciclo e semiparalizzato tutte le caratteristiche della mia bici, e con una strabiliante dovizia di particolari, come se l'avesse allestita lui e fosse appena sceso per un saluto. Chiede, si interessa, l'attenzione è tutta per i pedali automatici e per le placchette avvitate sotto le mie scarpe.
Cerco di spiegarmi, ma ho qualcosa che si strozza in gola. Non riuscirei ad esprimermi neppure nella mia lingua madre. Probabilmente neppure a gesti.
Saluti e riparto, con la mente impegnata a soppesare il valore di ciascun singolo giro di pedale.



Più avanti, dopo una rapida digressione in località Isolella sul promontorio di Punta Sette Nave (non è un errore, il toponimo è esattamente così), sosto all'ombra di un pino sulla spiaggia di Verghie. In un istante di disattenzione la bici, debolmente appoggiata ad una radice affiorante, per effetto del carico si sdraia rapidamente a sinistra. L’urto rompe il gancio di fermo della borsa anteriore, lo stesso che avevo già riparato con la resina dopo il danno riportato arrivando a Iglesias, alla fine di una tappa della TranSardinia South 2010. Con un tratto di funicella e il coltellino svizzero mi invento in fretta una riparazione sufficientemente solida e duratura. Avere speso ore della mia adolescenza a guardare i telefilm di McGyver sarà pur valso a qualcosa. Quindi mangio, approfitto di un bar sulla spiaggia per caffè e toilette, e mi riavvio, fiducioso in un brillante futuro.

Punta della Castagna

Lasciata alle spalle Punta della Castagna, le mie illusioni si frantumano senza pietà lungo il tratto di strada seguente. Preceduto dal funesto presagio di una dolorosissima puntura di vespa nell'interno coscia, vado letteralmente a sbattere contro un muro di una bastardaggine unica, pendenza stimata del 18-20%, niente vento e sole a picco. La versione locale del “Kaiser” Zoncolan termina solamente trecento metri più in alto e due chilometri scarsi dopo, al bivio per Acqua Doria (nelle indicazioni stradali ridenominata d'Oria in spregio degli odiatissimi conquistatori genovesi). Mi fermo ad un negozio di souvenir a raccogliere le forze, e assisto ad una di quelle scene che, agli occhi di un italiano di oggi, mitridatizzato da ogni genere di menefreghismo, strafottenza e inciviltà distillate su base quotidiana, pare di stare su di un altro pianeta. Si ferma un'auto ed entra un turista tedesco. Cerca una fontana, non acqua da bere in bottiglia ma cerca una fonte di acqua corrente, dalla spiegazione a gesti non capisco bene quale sia l'esigenza precisa ma a tutta prima il negoziante non sa fornire indicazioni. Il tedesco fa per allontanarsi verso l'auto per ripartire, quando l'esercente corre (letteralmente) fuori dal bar richiamandolo “Monsieur, monsieur!!”. Protende una bottiglia da un litro e mezzo di acqua di rubinetto, con tutta probabilità presa da un lavandino. Il turista accetta la bottiglia, ringrazia sentitamente e riparte. Il barista ha l'aria di chi abbia fatto qualcosa né più né meno che normale. Io mi sento una merda e mi vergogno da parte di tutti i baristi, negozianti e ristoratori d'Italia,
quelli che non ti fanno lo scontrino ridendoti in faccia,
quelli che “tanto questo qui quando lo rivedo”,
quelli che i clienti, meglio se turisti, sono polli da spennare,
quelli che ti piantano casino se ti azzardi ad entrare con un passeggino,
quelli che di una persona scorgono solo il portafogli, e che misurano le persone in funzione del transito di danaro dalle altrui tasche alla propria cassa.
Riprendo il cammino scavallando in corrispondenza di Capu Neru, mi viene concesso un po’ di respiro tra Serra di Ferro e Porto Pollo, ma l'ultimo tratto di litoranea fino a Propriano è un saliscendi decisamente marcato e impegnativo (o almeno così lo percepisco nelle gambe). Per non farmi mancare davvero nulla, arrivato al campeggio scopro con orrore che è tutto terrazzato: la reception è alla base di un colle, sulla strada principale, mentre le piazzole bisogna raggiungerle scalando i cinquanta metri del colle medesimo, su una strada in brecciolino, con la bici carica, a fine tappa, con le energie in rosso. Esaurite con metodo tutte le bestemmie a mia disposizione vago per scegliere il posto e piantare la tenda. Mentre giro scambio due parole con una coppia di cicloviaggiatori tedeschi che arrivano dall'Italia, attraverseranno Sardegna e Sicilia.

Ascolto con interesse al loro stupore su una stranezza tutta italiana, su cui mi chiedono lumi: nonostante una cultura sportiva e tecnico-produttiva della bicicletta di risonanza mondiale, non vi è alcuna corrispondenza in termini di diffusione della bicicletta come veicolo per gli spostamenti urbani e a corto raggio su base quotidiana, in termini di infrastrutture ciclistiche, di facilità d’uso, nell’intermodalità. Allargo le braccia, e mi verrebbe da parafrasare il Donnie Brasco del celebre "...e che te lo dico a fare". Sistemazione, cena, tenda e poi il resto. Sera al bar con birra Pietra, appunti e Germania-Grecia agli Europei di calcio. Al ritorno in tenda al momento di infoderarmi scopro di avere come vicini due gruppi francesi con relativi camper. Ma di loro parlerò poi. Per adesso a domani.

Distanza tappa: 77 km
Distanza totale: 348 km
Tempo impiegato: 5h
Velocità media: 16 km/h
Ascesa cumulata tappa: 918 mt
Ascesa cumulata totale: 4.271 mt
Quota massima: 307 mt.



GIORNO 6: 23.06.2013 - Propriano-Bonifacio




































Sveglia sottosopra: nottata pressoché insonne e con lo stomaco in subbuglio (cena troppo pesante ieri sera, mi sono fatto fregare dalla fame bestiale che mi ha assalito all’arrivo e mi sono rimpinzato che neppure Totò con gli spaghetti di “Miseria e nobiltà”). Faccio colazione col fornello sul prato, i vicini camperisti francesi si sono alzati già da un pezzo, poi mi accorgo (nuovamente)  di essere l'ultimo ad essermi attivato stamattina. La colazione cerco da farla stare da qualche parte nello stomaco più per dovere di bandiera che per vero e salutare appetito. Raccolgo le mie masserizie e parto, tonico e scattante come uno squacquerone quando cola giù dalla piadina.


Vista di Propriano e del suo porto, arrivando da nord


Rabbocco le scorte al locale supermarket, la temperatura è già alta e io mi sento un disco a 78 giri suonato a 33 (per chi ha meno di 25 anni questa battuta gliela spiego a parte, contattatemi via e-mail). Tanto per essere coerenti col tema, per venir via da Propriano SI SALE, ma tutto sommato è nulla paragonato alle pendenze da omicidio preterintenzionale del giorno prima. E poi comincio ad affacciarmi verso il lato sud dell'isola e i suoi celeberrimi venti si fanno sentire, e non guasta affatto. Subito si offrono scorci notevoli, tinti di puro mediterraneo bianco calcare, verde vegetazione e il blu più blu del blu, che aumentano progressivamente di bellezza come procedo verso Bonifacio. Gli effetti della nottata in si bemolle però tramano contro di me, mi sento cotto e le gambe sono ancora alla seconda fase REM. Arrancando come se il mio tempo sulla Terra volgesse oramai al termine, duro meno di una quindicina di km e all'ingresso di Sartène stramazzo in corrispondenza dell'ennesima salita. Stendo il tarpaulin per terra in un parchetto ombreggiato, inizialmente senza neppure accorgermi del panorama favoloso che la piazzola offre sui monti verso l'entroterra di nordest.


Perdo i sensi per più di un'ora, e come mi riprendo mi autoconvinco che è ora di pranzo, indi mangio. Nel ripartire passo oltre l'ingresso delle mura della città, lambendola senza degnarla di uno sguardo, nonostante la guida Routard la indichi come meritevole di una visita. Vorrà dire che ho seminato per strada un altro buon motivo per tornare. Scavallando verso sud il vento aumento ancora, a riprova della nomea che le Bocche di Bonifacio possiedono sin dall'antichità. 


La costa sud della Corsica tra Propriano e Bonifacio. La linea di costa visibile sulla destra è la Sardegna.
Tale peculiarità è abbondantemente sfruttata dai surfisti che si assiepano nella zona, sfruttando ogni anfratto e insenatura offerta dalla costa frastagliata. 
Per fare merenda mi fermo in una di queste rientranze, ad osservare le attività di una scuola di kite-surf. L'arrivo a Bonifacio, nel tardo pomeriggio, avviene lungo una stretta gola ricavata negli strati della tipica roccia calcarea di queste parti, il cui candore è striato orizzontalmente dagli agenti atmosferici sino a conferirle un aspetto di una maxi-meringa, biancheggiante, striata e porosa. Il caratteristico porticciolo della località è chiuso da alte pareti rocciose che schermano il vento, col risultato di un sole a picco e una temperatura calcificante.
Bonifacio arrivando da ovest. La parte visibile in questa immagine
è la sola porzione arroccata sullo sperone calcareo: il resto del centro abitato
giace al riparo di una stretta gola sottostante, chiusa da alte pareti rocciose. 

Il contesto suggerisce pertanto una pausa prima dei cinque km rimanenti per raggiungere il campeggio. Decido di unirmi allo struscio lungo la passeggiata che costeggia il molo del porto vecchio, alla mia sinistra si dipana una teoria di dehors dei vari bar e baretti, a quell'ora frequentatissimi per aperitivo e happy hours. Una riproduzione in scala ridotta di Saint Tropez. Sfilo a passo d'uomo senza scendere dalla bici, incuriosito dalla fauna abbronzata e in tiro, di livello "fighetto sostenuto/andante con brio", mollemente stravaccata sui divanetti. Per quanto mi sforzi di osservarli attentamente non riesco a cogliervi alcun cenno di volgarità, nessuno che giochicchi con lo smartphone, nessuno che alzi la voce, nessun tatuaggio di draghi e serpenti a fare capolino dai colletti delle camicie o da sotto le minigonne. Un'andata lungo il molo in assi di teak e un ritorno da una stradina parallela, mezz'oretta in tutto inclusa la spesa ad un market. Mi ritrovo quindi al punto di partenza, e mentre sono lì che mi godo un deejay set al tramonto con aperitivo, sempre senza scendere dalla bici, vengo avvicinato da una pattuglia in mountain bike della locale Gendarmerie, a malapena cinquant'anni in due. Con un inglese ampiamente all'altezza della situazione vengo garbatamente redarguito dai due baldi ragazzotti per avere percorso un'area pedonale senza scendere dalla bici. Mi fanno elegantemente presente che avrei dovuto condurre la bici a mano. E, senza darmi il tempo di profferir parola, mi elargiscono gratuitamente la lezione personalizzata del giorno, valida anche per la settimana, il mese, anno, lustro, ventennio, secolo. Una lezione di vita: "Signore, Lei deve scegliere tra essere veicolo o essere pedone". Così, senza scomporsi, senza alcun accenno di autoritarismo, né la minima aggressività nel linguaggio verbale o corporeo, due sani giovinotti incaricati di pubblico servizio perseguono il loro dovere con equilibrio, forti dell'incarico a loro affidato per la comune incolumità, incarico che palesemente non viene messo in discussione a ogni pié sospinto dal primo tamarro pizzicato a infrangere le regole. Non stanno esibendo il loro potere, stanno solo facendo rispettare una regola accettata da tutti quaggiù e intimamente percepita come loro ruolo. Sono quasi imbarazzati a doverlo far notare, quasi come se da noi qualcuno fosse, che so, costretto a far presente che non si infilano le dita nel naso o non ci si gratta il culo subito prima di stringere la mano al prossimo tuo. Solo puro, sano e luminoso buonsenso comune, pacatamente richiamato e fatto valere in un soleggiato sabato pomeriggio nel sud della Corsica. Un richiamo senza futili coercizioni, senza strascichi amministrativo-pecuniari di epoca borbonica, che si pone il solo fine di ottenere l’immediata correzione di un comportamento fuori dalle regole. A conclusione dell’episodio infatti scendo semplicemente dalla bici, loro ringraziano, e prima di salutarmi non ce la fanno a trattenersi dal domandare che giro stia facendo, che strada abbia percorso sino ad ora, e dove io sia diretto. In fin dei conti sono ciclisti anche loro, e la curiosità deve essere davvero molta...
Appesantito da cotanta lezione riprendo il breve cammino che mi resta per terminare la tappa di oggi, ovviamente affrontando la salita che porta all'altipiano circostante. Il rapporto più piccolo non ingrana, mi inchiodo a mezza via e vivo un attimo di difficoltà. Imbrattandomi per benino il guanto posiziono la catena manualmente e riparto. Sbuco su un pianoro calcareo ricoperto da bassa vegetazione mediterranea incessantemente spazzata dal vento, nelle radure della quale spicca il biancore del terreno. Finalmente giunto al campeggio ho un momento di sospensione delle funzioni vitali, recupero coscienza con fatica e penso subito a nutrirmi, poi mi dedico al resto. Sono esausto, medito di chiudere qui l'esperienza e domani incamminarmi verso casa passando per Olbia. Rimugino così la variante già studiata nella mia pianificazione: in un'ottantina di km dovrei riuscire a traversare le Bocche di Bonifacio col traghetto fino a Palau, poi pedale e prendere la nave serale da Olbia, e dopodomani finisce tutto. Ma la notte porta consiglio, la stanchezza sta pensando e decidendo al posto mio. Intanto mi fermerò un giorno, ho bisogno di recuperare.


Distanza tappa: 70 km
Distanza totale: 418 km
Tempo impiegato: 4h20'
Velocità media: 16 km/h
Ascesa cumulata tappa: 924 mt
Ascesa cumulata totale: 5.195 mt
Quota massima: 315 mt.




GIORNO 7: 24.06.2013 - Sosta a Bonifacio

Notte ventosissima, dormito come un bimbo. Sarà perché non avevo la pressione psicologica di ripartire l'indomani. Sveglia con comodo, non combino un tubo per l'intera giornata, tolto il bucato ed un tentativo (poi rivelatosi inutile) di sistemare il cambio. 
Spesa al market, pranzo con una - o forse tre - porzioni di pasta. La giornata scorre indolente col vento che non accenna a calare. Nel tardo pomeriggio, con le sole sacche vuote, mi concedo un'uscita turistica in bici a Bonifacio.













Salgo sulla balconata che offre una veduta spettacolare sui faraglioni calcarei al tramonto, ma rinuncio a visitare la città vecchia arroccata ancora più in alto.




A sera mi sono risolto a proseguire il viaggio, adesso sono qui e mi è già costato molto, voglio completare l'opera. Già che siamo in ballo, balliamo!! Sapendo che l'indomani la tappa toccherà quote importanti, con conseguente accumulo nelle gambe, per partire presto mi porto avanti con lo smontaggio e risistemazione del campo. Vado a letto che ho praticamente già riposto tutto nelle sacche, non prima però di Italia-Inghilterra agli Europei di calcio (mai vista un'Inghilterra così incolore, tenendo presente che io di calcio non ne capisco un fico secco).

Distanza tappa: 0 km o poco più








GIORNO 8: 25.06.2013 - Bonifacio-Zonza





































Dopo una notte finalmente placida & tranquilla mi desto prima del solito, e grazie alla preparazione anticipata della sera prima alle 08.30 sono già in pista. Dopo aver pagato alla reception converso brevemente con un camperista italiano appena arrivato. Mi chiede che giro stia facendo, e come gli racconto che voglio raggiungere Corte attraversando il centro dell'isola sbigottisce, mi dà del  "tosto" e mi dà appuntamento là, ove anch'egli intende dirigersi con i compagni di viaggio. L'avventura di oggi inizia tenendomi al largo di Bonifacio, addentrandomi nella macchia attraverso stradine secondarie delimitate da alti muretti a secco. Riprendo così la strada principale che corre verso nord, da Bonifacio a Portovecchio, diritta e trafficata. Sosta per la spesa, e mi ritrovo in un gorgo di automobili incolonnate lungo la strada che costeggia il porto. Pausa spuntino, non vedo l'ora di togliermi da lì. Esco dalla cittadina e non senza un timore reverenziale mi dirigo verso ovest, in breve tempo faccio la conoscenza con la tanto temuta salita che porta al cuore della Corsica, quella che ha popolato sogni e incubi negli ultimi mesi. Sto facendo ingresso nel cuore duro dell'isola, roccioso e alpino, quello che bisogna meritarselo. Salgo regolarmente, e con altrettanta regolarità mi idrato e mi alimento. Sfrutto le frequenti fontane lungo il percorso per non appesantirmi con scorte di liquidi. L'acqua è fantastica e i punti in cui fuoriesce dalle pareti rocciose sono segnalati con indicazioni a mano tracciate con la vernice spray sull’asfalto. 


La baia di Portovecchio vista da mezza costa  a ovest





In contrasto con la giornata ventosa, la temperatura diventa impegnativa nei punti assolati e senza vento. Assisto alla mutazione della popolazione arborea mano a mano che salgo, da bassa vegetazione mediterranea ad alti e fitti pini larici. L'infittirsi del bosco ai miei lati occlude quasi totalmente la vista sulla sottostante costa, abbandonata da qualche ora e che reincontrerò solo tra quattro giorni. Salgo avendo fisso in mente l'obiettivo che mi sono dato per oggi, ovvero il valico in corrispondenza della località L'Ospedale. Il raggiungimento della meta giornaliera, al colmo della soddisfazione, è celebrato ad un bar del borgo con una fettona pantagruelica di torta alle castagne con panna, e il breve tratto di salita rimanente come arriva se ne va.



Nonostante la progressione dell'ascesa, costruita una pedalata dopo l'altra, il cambio di scenario è improvviso. E' come voltare una pagina e ritrovarsi a leggere un altro libro, stampato con altra carta, caratteri diversi, storia differente e magari arricchito di illustrazioni che mancavano fino a quel momento. Mi ritrovo, io che solo un paio di ore prima ero al livello del mare nello struscio balneare automunito, a pedalare costeggiando un lago alpino ornato di larici altissimi, strigliato dal vento. Lo scenario è da orso Yoghi, Bubu e Ranger Smith, le alte cime del circondario a coronamento del sottostante specchio d'acqua a tratti increspata, la strada spiana, io sono così emozionato che scoppio a piangere. Sperimento così per la prima volta nella mia vita la pedalata depurativa: si mette in moto una macchina  che, a ogni giro di pedivella, elimina le scorie incrostate della fatica, del malumore, delle paure, delle aspettative schiaccianti, dei sensi di colpa per essere partito nonostante tutto, la fatica. La pedalata come sistole e diastole, nuova linfa motivazionale viene immessa in pressione nell'animo, rimpiazzando il brodo reso aspro dalle vicende del quotidiano. Le persone che incontro per la strada attorno al lago trasecolano nel vedere un ciclista stracarico pedalare di buona lena a 950 metri di quota, e i cenni di saluto si susseguono numerosi tra i turisti. Formazioni granitiche e folte conifere guarniscono l'ultimo strappo in salita che porta fino ai 997 metri della Bocca de l'Illarata, dove mi fermo per le foto di rito.






































Per Zonza si scende a lungo, e dopo la spesa al market della piazza principale arrivo al campeggio. Ingenuamente nelle ultime ore non ho dato segni di vita per telefono a casa, e al campeggio scopro, con un misto di compiacimento e perplessità, di essere lontano dalla civiltà anche per quel che riguarda la linea telefonica mobile. Un tentativo sulla linea fissa gentilmente concessomi dal titolare va a vuoto. A casa non risponde nessuno (se non è sfiga questa…). Su consiglio di questi mi avvio a piedi e me la faccio a ritroso verso il paese alla ricerca di una tacca di linea, ma senza esito. L'inutile passeggiata di un'ora mi costa altrettanto ritardo sulle operazioni, e sarei anche un po’ stanchino. Mi preparo per la sera, cena con pasta al sugo in scatola (non me ne vogliano le massaie del Meridione!!!) e a nanna prestissimo: domani è il secondo giorno di montagna e, in confronto a quello che mi aspetta, oggi è stato solo l'aperitivo.

Distanza tappa: 74 km
Distanza totale: 492 km
Tempo impiegato: 5h
Velocità media: 14,5 km/h
Ascesa cumulata tappa: 1.246 mt
Ascesa cumulata totale: 6.441 mt
Quota massima: 997 mt.



GIORNO 9: 26.06.2013 - Zonza-Col de Verde



Il sonno notturno è stato irrimediabilmente rovinato...... dal troppo silenzio. Dovendo andare in bagno a metà nottata, non sono più riuscito a prendere sonno. Al mattino sbaracco tutto e mi rimetto in marcia. Chiedo consiglio al titolare sulla strada migliore da prendere per evitare le salite, e questi per tutta risposta distilla per me un puro auspicio corsicano: "Da queste parti di discese ce ne sono poche". Riprendo infatti a salire come metto letteralmente il muso fuori dal campeggio. Attraversando Quenza mi fermo all'ufficio postale a spedirmi un pacco a casa con gli oggetti più pesanti e al contempo rivelatisi più superflui dopo la prima settimana di viaggio (espediente imparato da un diario di viaggio si internet, e rivelatosi eccezionalmente valido).

La signora allo sportello si prodiga e si fa in otto per reperire una scatola sufficientemente capiente, poi mi assiste passo passo nella compilazione della cedola di spedizione internazionale. Prende talmente a cuore la mia vicenda da lasciarmi l'impressione che, se potesse, recapiterebbe volentieri lei stessa il pacco direttamente a casa mia. In tutto questo c'è da aggiungere che la comunicazione - lei in Còrso io in Italiano - non è stata un problema. E' pazzesco, non ci credo ancora ma è così, ed è una cosa che avvicina tantissimo rispetto ai turisti francesi. Prima di riavviarmi scambio due chiacchiere – stavolta infatti in inglese - con un giovane turista francese munito di prole. Sul percorso continuano a presentarsi le fontane di chiare fresche e dolci acque, alle quali attingo abbondantemente. Il panorama da togliere il fiato contribuisce in modo decisivo ad addolcire la fatica, alte cime sovrastano fitti boschi di larici e castagni. 



Giungendo ad Aullène si fa visibile lo sfregio lasciato dal disastroso incendio del 2009, che ha devastato un'intera catena montuosa. Sembra la Luna, e la vista del gigante ferito lascia amarezza e rabbia.


Ad una piazzetta sosto su una panchina, una fontana a due metri provvede a dissetarmi e un albero sovrastante a rinfrescarmi. Si insinua un ulteriore granello di sabbia nell'ingranaggio del mio andare, e mi inquieto alla scoperta di essere a zero con la batteria del cellulare, e di non potere di conseguenza avvertire casa che sono vivo e vegeto. Sono ormai due giorni che non dò notizie, e già immagino la Farnesina, o Federica Sciarelli, occuparsi del mio caso.































Riparto, ovviamente in salita, e il panorama delle cime circostanti che occhieggiano tra gli alti fusti dei larici contribuisce non poco a lenire lo sforzo. Si sale e si continua a salire verso il secondo impegno della giornata, il Col de la Vaccia. Giusto prima di affrontare la rampa decisiva approfitto di una cascatella per rinfrescarmi un po’, e riprendo più bello che prìa. 
















L'ascesa è costante, medio difficile, su fondo sconnesso a causa di lavori alla pavimentazione. Gli autoveicoli che passano alzano un polverone irrespirabile, non fa caldissimo ma sento comunque il sole scottare sulla pelle perché sono a metà giornata. Oltrepasso il valico a poco meno di 1.200 metri di quota, fermandomi per guardarmi attorno e fissare qualche ricordo su video e fotocamera.

















La scena che mi si offre al di là del Col del la Vaccia è esaltante: osservo da una balconata naturale orientata a nord una valle lunga, ampia e profondissima, coronata da vette sempre più alte via via che procedo. Comincia quindi la discesa verso Zicavo, che presenta un'insidia tanto inaspettata quanto grave: la zona è infatti caratterizzata dal libero circolare del bestiame allo stato brado. Lungo la veloce discesa sfioro un paio di mucche placidamente stravaccate a cavallo della mezzeria della strada (e mi si perdoni il gioco di parole), più un maiale di notevole stazza che vaga a caso. Al secondo incontro ravvicinato tengo gli occhietti bene aperti: un verro sulla forcella a trentacinque all'ora è un tipo di esperienza alla quale per adesso non aspiro. Perdo parecchia quota, circa seicento metri, ma la discesa si arresta al paese di Zicavo, che scopro essere pressoché deserto. Faccio merenda con un po’ di frutta su una panca in pietra all’ombra di un edificio, prima di fare la conoscenza degli ultimi venti chilometri scarsi di salita fino al Col de Verde, termine tappa di oggi a 1.289 metri di quota. Giungo al valico alle 17.30 spaccate, dopo una bella salitona regolare e immersa nel bosco, e senza scendere dalla bici studio la disposizione delle piazzole, ricavate sul fianco di una scarpata che digrada dolcemente nel bosco, sormontata dal Rifugio Col de Verde. Mi dà da pensare il modo in cui scendere alle piazzole del bivacco senza farsi del male, ma alla fine trovo un passaggio meno ripido degli altri.
















Monto il bivacco, al rifugio prenoto cena e colazione, in quel mentre affluiscono gli altri escursionisti in arrivo dalla GR20 (Grande Route 20), un trek arcifamoso che attraversa la Corsica da nordovest a sudest lungo le cime più alte, per esperti. Le difficoltà incontrate nella giornata di cammino si riflettono sui volti degli altri ospiti del campeggio, stanchi ma comunque allegri, qualcuno con ferite alle ginocchia, altri con fasciature e bende, qualcun altro che si buca le vesciche ai piedi. Si respira un’atmosfera spartana di salutare fatica in quota, promiscuità e goliardìa tra gente di montagna. Coda per la doccia, uomini e donne senza distinzione, gran vociare e risate, poca acqua calda, bucato. Cena chiamata a gran voce dalla terrazza verso le sottostanti tendine, alle 19 esatte, e sbrigarsi altrimenti il titolare s'incazza. Riesco a mettere in carica il cellulare e la videocamera ad una presa del rifugio, faccio un altro tentativo di chiamare a casa, ma ancora una volta non mi risponde nessuno. All’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri immagino l’alacre fervore per rintracciarmi. Avverto quelli del rifugio che forse - ma solo forse – qualcuno richiamerà cercandomi al loro numero fisso durante la serata. Siccome l’atmosfera promiscua pervade anche la cena, mi siedo ad un tavolo con altri cinque francesi, e per tutta la serata non riesco a spiccicare parola (né, d’altro canto, i commensali paiono interessarsi granché a me).
















La serata cameratesca con tanto di camino acceso e braciole sulla griglia viene a un certo punto intervallata da un guizzo imprevisto, col telefono del rifugio che squilla, momento di silenzio e gente che si gira, il proprietario risponde, confabula brevemente, poi mi indica col dito. Quaranta teste e ottanta occhi seguono la scena con dovizia di particolari. Mi concedo quei tre-quattro secondi per sprofondare nelle viscere della montagna prima di andare a prendere la cornetta, gentilmente tesa dal titolare al mio indirizzo con sguardo apertamente irridente. Nel silenzio più totale il trifolco ci tiene a far sentire a tutta la sala che si tratta della “maman”, riavviando immediato il brusio ironico dei presenti, ovviamente incentrato sull’argomento “Italiani mammoni”. Probabilmente erano anni che non si divertiva così, da quando si è classificato ottavo su venti partecipanti al campionato provinciale degli spaccalegna con una mano legata. E invece di mia mamma al telefono è Sonia, inferocita il giusto per la mancanza di informazioni nelle ultime quarantotto ore, e mi tocca pure subire un’asperrima rampogna telefonica coi francesi che osservano sprezzanti. Ma come tutte le umane cose, anche questa giornata volge al termine. 

Mi trattengo a tavola nel dopocena per l’immancabile Pietra & appunti di viaggio. Confermo la colazione per domattina, e levo le tende ritirandomi in tenda.

Distanza tappa: 65 km
Distanza totale: 557 km
Tempo impiegato: 4h45'
Velocità media: 13,6 km/h
Ascesa cumulata tappa: 1.147 mt
Ascesa cumulata totale: 7.588 mt
Quota massima: 1.289 mt.



GIORNO 10: 27.06.2013 - Col de Verde - Corte









































La notte è passata in un silenzio siderale, o - meglio - il tipo di silenzio caratteristico di una foresta di montagna, tra civette che chiamano da sopra gli alberi e cinghiali che frugano nel sottobosco. Il buio è impressionante, e acquisisce una sua corporeità, come se non fosse solo il risultato dell'assenza di luce ma sia la presenza di qualcos’altro di fisico, di materiale, di persasivo che a questa si sostituisca nottetempo. Come ormai tradizione mi sveglio nel cuore della notte per il bagno; la torcia che mi consente di farmi strada riesce faticosamente a rischiarare solamente un ristretto spicchio di sentiero, come se dovesse lottare per farsi strada nella pece che ricopre il circondario. Se avessi uno scafandro mi darebbe l'impressione di camminare sul fondo della piattaforma continentale, sul fondo dell’oceano. Volgendo lo sguardo all’insù invece lo scenario della volta stellata è di quelli che non si dimenticano, e la definizione dei punti luminosi è così netta che prima di riprendere sonno vedo chiaramente la Stazione Spaziale Internazionale scivolare via sopra la testa (non è impossibile vederla: la ISS è grande come un campo di calcio e riflette benissimo la luce, e basta sapere cosa osservare per distinguerla). Alla faccia della fortuita coincidenza....
Quando si pensa al risveglio in un campeggio solitamente si ha in mente un'immagine progressiva, gente che si riattiva alla spicciolata e un poco alla volta fa le proprie cose. Ecco, il risveglio della mattina al quale assisto è invece più una riaccensione istantanea, una simultanea sollevazione collettiva concordata per le zero-sei-e-zero-zero. In due minuti c'è la fila al bagno, nei successivi quindici osservo le tende a igloo sgonfiarsi e scomparire in modo rapido e progressivo, un "plop!" e sono risucchiate dal terreno. Alle zero-sette-zero-zero il rozzissimo titolare del rifugio, stagliandosi imperioso dal parapetto della terrazza sovrastante il bivacco, caccia un urlo animalesco convocando per la colazione quelli che hanno prenotato la sera prima (Traduz.: "E svelti se no scendo io e vi ci porto a scarpate nel culo, branco di fighetti"). Grosse fette di pane casereccio cotto a legna, due panetti di burro, due qualità di marmellata e cioccolata calda in tazza forniscono all'escursionista quel vitale spintone necessario a ripartire di gran carriera, su per le rupi della Corsica centrale, e tanti saluti al picco glicemico.




Alle 07.45 sono l'ultimo ad avviarmi in un campeggio ormai deserto, e - prima di affrontare la discesa a gambe fredde che mi aspetta come inizio giornata - mi imbacucco a dovere: il versante nord è infatti ancora in ombra, e grazie all'ombrello delle chiome arboree lo sarà ancora per molte ore. Mai decisione fu meglio presa: l'aria è assai fresca mentre fendo solitario i sinuosi tornanti ammantati di bosco, e la felpa, il k-way, la bandana e il collare di pile svolgono il loro dovere fino in fondo. Nel frattempo, diverse centinaia di metri più in basso, per una moltitudine di altri esseri umani comincia l'ennesima giornata a 35°C e 75% di umidità relativa. Non giro un pedale per quasi un'ora, e a fondovalle festeggio la risalita a 15°C accostando sulla sponda di un muretto e tirando fuori l'armamentario per una pausa caffè caldo caldo.



Sono l'unico essere vivente privo di piume, pelliccia, fogliame, elitre, spirotromba o esoscheletro per dozzine di chilometri. Nonostante tali lacune, appartengo comunque alla razza che si conferma continuamente la più pericolosa del mondo. A Ghisoni mi fermo all’emporio: varco l'entrata che si trova nel municipio, si seguono le indicazioni pitturate sui muri interni dai bimbi dell'adiacente asilo, nei corridoi bisogna stare attenti a non infilarsi nella locale caserma dei pompieri, dopodiché - evitando la cucina di un ristorante - si accede sul retro di un bar, e là trovo il minimarket. La pavimentazione a scacchi neri e bianchi è di quelle che – se fissate con troppa insistenza - ti catapultano nel finale di "2001 Odissea nello Spazio", quello dell’astronauta flippato con le visioni psichedeliche. Astenersi chi soffre di labirintite.


Mi accoglie la commessa più racchia dell'universo, truccata come una matrioska, che però parla un buon italiano e mi assiste con squisita cortesia negli acquisti. Passo dal forno (raggiunto seguendo le indicazioni per il café, sul retro dell’ufficio informazioni turistiche: incasinare le insegne dei negozi deve essere un'usanza locale) e mi procuro una baguette calda calda. Rinfrancato e col pranzo nella bisaccia mi dirigo verso il Col de Sorba, ultima vetta di questa tre-giorni montana, a 1.311 metri di quota. Faccio scorta di acqua ad una fontana, ma da lì a breve si rivelerà essere un liquame tossico-nocivo puzzolente e imbevibile (fantastico averne riempito la sacca e due borracce, e scoprirlo quando ormai son partito da mezz’ora e sono in mezzo al nulla senza alternative per bere). La salita da affrontare però stavolta è più corta, quindi più ripida: calcolo a spanne il 7% per 12 km di ascesa comunque splendida, regolare e panoramica, ventilata e ombreggiata il giusto. Anche qui stanno rifacendo il manto stradale, e brecciolino e polvere non mancano. Sfilo accanto agli operai del cantiere stradale, che pranzano allineati su un muretto all'ombra; senza smettere di pedalare auguro loro "Bon appetit", e ne ricevo la risposta in coro. La vista si apre a destra sulla valle sottostante e sui maestosi picchi circostanti, severi e boscosi.
Una stretta sequenza di tornantelli mi issa fino al culmine del valico, ove giungo traboccante di fatica, adrenalina ed euforia. E' la salita più alta del mio giro in Corsica, me la sono guadagnata palmo a palmo. Per celebrare l'evento e consumare degnamente il pranzo mi scelgo un punto erboso leggermente sopraelevato e in ombra, che domina il passo. Assisto incuriosito all'andirivieni dei turisti motorizzati, che passano e vanno, sostando solo per una fugace foto ricordo. Quasi tutti, vedendomi con la bici carica accanto, manifestano sorpresa e mi rivolgono cenni di ammirazione. Uno più audace ed entusiasta degli altri, tra gesti e frasi smozzicate in francese, chiede conferma del fatto che sono salito sin lassù in bici, e ridendo mi dà esplicitamente del pazzo picchiettandosi la tempia. Una comitiva di motociclisti austriaci non fa in tempo a bearsi del loro arrivo in quota che trasecola, trovando me che faccio ciao-ciao con la manina. Una coppia su una spider rallenta, mi notano, mi guardano, e il lui alla guida si leva il cappello chinando il capo con gesto cavalleresco. Un bel vento sostenuto risale da valle, e la felpa e la bandana rivedono la luce dopo essere state riposte a Ghisoni.




Mentre documento il tutto con foto e riprese mi passa seraficamente accanto una mucca, che in pieno relax sta andandosene in mezzo alla strada per i fatti suoi. Mi avvio sul versante opposto, un muraglione pressoché verticale, una balconata naturale con quattro tornanti così stretti da essere praticamente sovrapposti tra loro, senza un albero e pendenza da Galibier (ma al contrario). 




Ulteriore nota di colore sono il fondo sconnesso e il brecciolino dei lavori in corso. Mi attacco ai freni e occhio aperto, col risultato di una velocità media solo di poco superiore a quella della salita. Il pacioso panorama che si gode scendendo dal Col de Sorba nasconde un'insidia che scopro solo una volta giunto a fondovalle: essendomi infatti acclimatato dopo tre giorni passati alle temperature e alle quote attorno ai 1.000 metri, al termine della discesa subisco l'urto fisico delle temperature soffocanti, rimaste immutate da giorni. Abbandono via via i capi pesanti, e comincio a sudare e a bere, e bere e poi a sudare. Per raggiungere Corte sono costretto su una strada trafficatissima tra Vivario e Venaco. La temperatura è impegnativa e il mio umore sta precipitando. Tento di scattare qualche buona foto ai ponti in ferro della ferrovia, realizzati dal famoso Eiffel della omonima Torre parigina e consigliati dalla guida, ma l'ispirazione non è granché. A Venaco trovo una copiosa fontana in ombra, con annessa panca in pietra: gli inviti, se proposti elegantemente, non si rifiutano, e mi concedo mezz'ora di reidratazione osservando il traffico che scorre.




Rimango nuovamente vittima della mia mappa cartacea "car-driver-friendly", e non mi aspetto il diavolo di salita che mi ritrovo in uscita dal paese, una rampa di 350 metri di dislivello che gira attorno a un colle di media grandezza. Improperi e contumelie fanno da propellente per superare quest'ultimo sforzo. Il tratto seguente è tutta discesa fino a Corte, dove giungo in preda a visioni mistiche di ispirazione biblica, grazie a una temperatura che, ad una stima prudente, si aggira sui 38-40°C. Una pompatina alle gomme, spesa per cena e colazione dell'indomani (solito piazzalone asfaltato e onda di calore ascendente che ti sembra che il bitume ti si sciolga sotto i piedi), e riprendo il cammino verso il camping nella Gola della Restonica. Il centro storico della località svetta invitante dal cocuzzolo di un'altura, ma sono costretto ad ignorarlo, seminando così sul mio cammino un altro germe di buon motivo per tornare in futuro con la famiglia.




Mi inoltro nella Restonica, una stretta gola chiusa da pareti granitiche e bosco. Il limpidissimo torrente che scorre in basso forma innumerevoli piscine naturali, e molti sono i turisti - ma anche locali - che approfittano per una rinfrescante balneazione fluviale. E' ormai tardo pomeriggio, e i colori del tramonto prossimo avvampano, le tinte dello scenario incantevole di larici, picchi rocciosi, acqua di torrente, sottobosco odoroso si fanno più cariche.


 

E una delle principali caratteristiche del viaggio in bicicletta è che non ti limiti a osservare il panorama, ma ne fai parte. La strada, ça va sans dire, sale e si restringe, e a tratti arranco col carico di fatica della giornata. Tornano a farsi vedere i francesi che applaudono spontaneamente a bordo strada, ma stavolta non solo loro: mi imbatto in senso contrario nel camperista incontrato alla partenza dal campeggio a Bonifacio, quello curioso che faceva domande. E’ anche lui in bici con la famiglia, ma in senso contrario; mi riconosce, fa una rapida botta di conti sui chilometri che ho fatto per ritrovarmi lì, e prorompe in un tifo sfrenato che riecheggia lungo la stretta gola. Il suo “Tostissimooooo....!!!!!” si perde alle mie spalle mentre tiro dritto senza fermarmi, limitandomi a un caloroso cenno di saluto, ben sapendo che a questo punto, se mi fermassi, la stanchezza potrebbe giocarmi un brutto scherzo alle gambe. Approdato al campeggio soddisfo le mie necessità primarie in un ordine non esattamente razionale: mi sdraio per terra a fare un pisolo, poi monto la tenda, quindi igiene personale con bucato, infine cena. Uno sciame di insettini neri volanti infesta tutto nonappena il sole sparisce oltre le cime, alla fine riconosco la loro superiorità aerea e infastidito mi allontano. Appunti al bar con gelato e birra Pietra, lotto strenuamente contro un’armata di formiche a cui sto sottraendo territorio sul tavolo del bar, ma stavolta nella campagna terrestre ho la meglio. Come torno in tenda gli insettini neri sono scomparsi, posso ronfare in pace, e così faccio.

Distanza tappa: 67 km
Distanza totale: 624 km
Tempo impiegato: 4h35'
Tempo totale: 40h25’
Velocità media: 14.5 km/h
Velocità massima: 61.5 km/h
Ascesa cumulata tappa: 1.152 mt
Ascesa cumulata totale: 8.740 mt
Quota massima: 1.318 mt.



GIORNO 11: 28.06.2013 - Corte-Furiani



Tappone di trasferimento lungo una direttrice trafficatissima, praticamente senza storia e dalle attrattive nulle, tolto forse un tratto in cui ho l’onore di assistere al passaggio dell’unico treno della Corsica. Una caratteristica degna di menzione: un continuo e marcato saliscendi dall’inizio alla fine, che mina la mia volontà. Le soste sono tante (milioni di milioni...), durante una delle quali ricevo anche i saluti dei soldati della Legione Straniera di stanza sull’isola, dal retro di un camion militare telonato che sfila a velocità scriteriata. La trafficatissima arteria corre tra le montagne, le ultime del mio viaggio, per sbucare improvvisamente sulla costa, come un sipario che si alzi. Mi immetto sulla litoranea, parimenti trafficatissima, ma scelgo di buttarmi verso l’aeroporto e verso la costa anziché seguire la strada principale, nella speranza di evitare le auto. Trovo infatti una bellissima litoranea affiancata da una spettacolare pista ciclabile in sede propria, separata da un cordolo in cemento e provvista di segnaletica apposita, e poi lunga, lunghissima, interminabile. Entro al campeggio totalmente liofilizzato, con un clima caldo-umido oggettivamente difficile.




Avverto tutta la stanchezza del viaggio assalirmi in una volta sola, realizzando di avere concluso l’ultima tappa: l’indomani infatti, al mattino di buon’ora, ci saranno solamente gli 11 km per il porto. Compio le usuali operazioni dell’arrivo alla metà della velocità normale. Mi accomodo all’area wi-fi all’ingresso per decomprimere. Sempre con flemma anglosassone impiego una mezz’ora buona prima di trovare una piazzola per la tenda che mi soddisfi.


Con movenze da bradipo in vacanza pianto il campo sulla sabbia polverosa e faccio le mie cose. In previsione del reimpacchettamento del giorno dopo squaderno tutta l’attrezzatura per tutti i 25 mq della piazzola, per poi riporla in assetto da trasferimento nave+treno (la differenza sta nel fatto che, specialmente per il treno, per agevolare il su-e-giù per stazioni e scale e banchine e vetture le borse posteriori le monto sul portapacchi  sena vincolarle alla bici; quindi hanno bisogno di essere impacchettate per bene, senza i fronzoli svolazzanti che pendono durante il viaggio). Mentre sono lì, indolente, tra un sacco a pelo e un frutto per merenda, vengo attirato da un richiamo in francese: alle mie spalle sta passando lo stesso gruppo di camperisti francesi che erano accanto alla tenda a Propriano. Intuisco anche in loro la rapida botta di conti sul chilometraggio percorso, e mi fanno i complimenti. Col mio francese stentatissimo cerco stavolta di replicare qualcosa, ci salutiamo. Essendo questo il tratto di costa corsicana più vicino e accessibile dall’Italia (collegamenti da Genova ma soprattutto da Livorno), noto una presenza più significativa di connazionali. Durante la doccia nel vasto locale servizi del campeggio, tale italico presidio marca la propria presenza: di punto in bianco, infatti, si avverte il fischiettìo dell’inno nazionale. Quella stessa sera, infatti, c’è l’incontro Italia- Germania degli Europei, e il pronostico è nettamente a nostro favore (raramente la Germania ha vinto contro di noi, siamo la loro bestia nera negli incontri ad eliminazione diretta). Senza sapere né leggere né scrivere mi aggiungo al patriottico zufolìo, tra gli sguardi un po’ smarriti degli astanti. Smarco anche la pratica del pasto serale, mi accomodo nello spazio tv con congruo anticipo per la partita (non sono un pallonaro, tutt’altro, ma i tornei internazionali mi incuriosiscono, se poi mi trovo all’estero diventa tutto un po’ più speciale). In un’atmosfera equamente suddivisa tra campeggiatori italiani e tedeschi, questi ultimi hanno la peggio per 2-1. Tutti a nanna che domani si parte, e a causa della partenza della nave alle 09.00 sarà anche una levataccia.

Distanza tappa: 76 km
Distanza totale: 702 km
Tempo impiegato: 3h20'
Tempo totale: 43h45’
Velocità media: 22.7 km/h
Velocità massima: 55.3 km/h
Ascesa cumulata tappa: 422 mt
Ascesa cumulata totale: 9.162 mt
Quota massima:  661 mt.



GIORNO 12: 29.06.2013 – Furiani-Bastia-Genova-Casa





































La sveglia da panettiere rispetta appieno le promesse, ed esco dalla tenda che è appena l’imbrunire. Riesco a mantenere un ragionevole equilibrio tra il fare colazione ed il farlo ANCHE in silenzio, il campeggio è ancora immerso in un silenzio ovattato. Sbaracco tutto e parto in un’alba dalle tinte plumbee e dalla temperatura che si annuncia impegnativa. Costeggio lo stagno di Biguglia, e mi colpiscono le tinte neutre a quell’ora del mattino, chilometri quadrati di specchio immobile che restituisce il grigio del cielo.


 Entro a Bastìa con l’ora di punta, un casino indescrivibile. Ripercorro le zone toccate alla partenza, con scorci pittoreschi della città vecchia stanca e fatiscente. Ancora una volta non ho la presenza di spirito per fermarmi a scattare fotografie, cosa di cui non mi pentirò mai abbastanza. Faccio il biglietto alla stazione marittima, risalgo la coda di auto all’imbarco e mi ritrovo a lottare per guadagnarmi un metro di spazio tra dozzine di moto.




I motardi cascotutati, tutti italiani, guatano con malcelata sufficienza, qualcuno commenta e ridacchia. Onde evitare di sputar loro sulla visiera in tutta riposta, scelgo di ignorarli ostentatamente. Si alza la sbarra, entro nella stiva e assicuro la biga alla paratia. Seguono ore di noia straziante, solo in parte alleviata dalla presenza a bordo del wi-fi tramite il quale scambio qualche mail. A Genova ripercorro il copione ormai ampiamente sperimentato in occasione degli ultimi tre viaggi, ivi incluse le comiche finali delle scalinate alla Stazione di Piazza Principe.



Tra una stazione e l’altra, durante un cambio, scorgo con la coda dell’occhio una ragazza in attesa su una banchina prendere platealmente le distanze da me: la fatica, la strada, le ore e i giorni sul sellino, la polvere, il sole, il vento, e in generale il viaggio in bici lasciano tracce anche dal punto di vista olfattivo...

Al termine di un viaggio c’è sempre qualcosa che muore, dopo averne curato la nascita, sostenuto la crescita e assaporato la pienezza. Ma è un pò come la frutta matura, che staccandosi dall’albero precipita a terra, e mentre deperisce libera un seme, che porterà la nuova pianta, il nuovo fiore, il nuovo frutto.

Distanza tappa: 11 km
Tempo impiegato: 50'

Totali:

Distanza totale: 713 km
Tempo totale: 44h35’
Ascesa cumulata totale: 9.162 mt
Quota massima:  1.318 mt.

Post scriptum:

Alla fine sono riuscito a rientrare in possesso del pacchetto auto-speditomi da Quenza....

Circa due mesi dopo averlo spedito, e dopo avere fatto Corsica-Italia DUE volte a causa di una mancata consegna..... a conti fatti ha fatto più chilometri il mio pacchetto che io stesso pedalando.