domenica 27 gennaio 2013

DIARIO DI VIAGGIO TRANSARDINIA NORTHEAST 2011

NOTA: ho deciso di postare il diario di viaggio della TranSardinia NorthEast 2011 dopo avere già cominciato a scriverlo, ma senza averlo ancora completato nè aver raggiunto la perfezione. Questo significa che questo post evolverà un pò alla volta verso il completamento, raggiunto il quale la presente nota scomparirà. Per adesso, buona lettura.


TRANSARDINIA NORTHEAST

21.09 – 30.09.2011



Con lo spirito di dover obbligatoriamente rifinire un lavoro già cominciato, di dover aggiungere la firma, l’impronta finale ad un’opera, mi sono nuovamente imbarcato da Genova ieri sera con l’intento di completare il periplo della Sardegna. Dopo i due precedenti viaggi degli anni passati, nei quali ho percorso rispettivamente la costa ovest e quella sud, questa sarà la volta della costa nord, da cui scenderò ad est per poi inoltrarmi a ovest attraversando il centro dell’Isola, e giungere infine al paese di Austis, ombelico della Sardegna e terra barbaricina di origine della famiglia.
Come onorevole viatico mi sono incontrato a Genova con mio padre, da cui mi separerò arrivati al porto di destinazione, per reincontrarci nuovamente arrivato ad Austis.
Questo viaggio lo farò con una nuova bici, una Cannondale Badboy 26” V-brakes dalla struttura classica, pulita, filante, nera e opaca come un puma. Telaio in alluminio, un pò rigida ma leggera il giusto. Sebbene sia nata per lo urban biking, presenta posteriormente gli occhielli filettati per il montaggio dei portapacchi, mentre sulla forcella mi sono procurato gli adattatori della Tubus, due colletti stringitubo a vite in acciaio inox.
Dopo un’estate di pendolarismo, inclusi un paio di vai-e-torna con portapacchi e borse a vuoto per provarne il comportamento, ora è il momento di metterla alla prova sul campo.


GIORNO 1: 21.09.2011 – Porto Torres - Vignola Mare



Sbarco a P.Torres che non fa esattamente tutto questo caldaccio. Nonostante il cielo senza velature la felpa mi è inizialmente gradita,  e la temperatura favorisce la pedalata senza accumuli di calore. Mi instrado pertanto, dopo aver salutato mio padre, lungo il tratto iniziale della Statale 131, al colmo della mia beata inconsapevolezza. Mi ritrovo in un inferno di gomma, lamiera e motori puzzolenti dal quale riesco ad uscire dopo qualche chilometro, buttandomi a sinistra verso Sorso. La mia tappa del mattino è la residenza estiva di una coppia di zii materni, che ovviamente non si attendono la mia visita. Come giungo, infatti, mio zio al di là della pesante cancellata mi dà del “lei” e mi domanda “cosa desidera?”. Grande la sorpresa nello scoprire che sotto le sembianze di un pazzo scriteriato si cela uno dei loro nipoti.
Saluti, abbracci, un caffé con quattro chiacchiere fanno da graditissimo auspicio alla mia ripartenza dopo un’oretta. Questo mio trovare ospitalità ovunque mi trovi mi dà l’illusione di essere cittadino del mondo, anche se del mondo conosco solamente una infinitesima parte.
Proseguo dunque in mezzo alla campagna locale, diretto verso la litoranea. Nel momento esatto in cui la strada si innesta sulla litoranea, mi sfila di fronte un folto gruppo di stradisti ambosessi, ad andatura medio-sostenuta, diretti verso est. Ok, challenge accepted. Dò di pedale e riesco ad accodarmi in slipstreaming, risucchiato dalla loro scìa. Non si curano granché di me, sono tesi nello sforzo e non riesco neppure a cogliere se siano italiani, sebbene all’apparenza lo sembrino. Comunque dopo qualche chilometro accostano e rimango nuovamente solo. Dopo un primo tratto nascosto dalla fitta pineta alla mia sinistra, il mare fa finalmente la sua comparsa ad accompagnare il cammino. La strada si fa tortuosa mentre mi avvicino a Castelsardo, e ricca di saliscendi. Il panorama comincia a rendere i propri frutti e comincia a vedersi un pò di attività turistica settembrina, che in questa stagione è riservata agli intenditori, quelli che della Sardegna colgono il meglio tra clima, disponibilità e rapporto qualità/prezzo delle strutture ricettive.
Raggiungo Castelsardo che è quasi ora di pranzo, faccio la spesa e decido di consumare le mie scatolette mangerecce  alla rocca che domina la località. Giro in senso antiorario attorno alla strada di accesso che costeggia le alte mura del castello, e incontro una rampa che sale verso il borgo: lastricata, mediamente sconnessa, ma soprattutto con una pendenza che valuto tra il 20 e il 30%. Senza farmi alcuna domanda (colossale errore!!!) accetto anche questa sfida, traggo due o tre respiri profondi, mi concentro, e reprimendo un calendario di santi e beati prendo una breve rincorsa. La prima spinta ha successo per un primo strappo di una cinquantina di metri, che piega poi a sinistra in uno strettissimo tornantello per poi riprendere ancora più ripido. Riparto ordunque più testardo che capace, e mi inchiodo miseramente nel bel mezzo della salita trovandomi la strada sbarrata da un’auto che vuole scendere. Ovviamente la brusca decelerazione mi fa sbandare e la bici si corica di lato sotto l’effetto del peso in una tale pazzesca pendenza. La guidatrice non manifesta alcuna propensione a concedere spazio ad un ciclista in difficoltà in salita, e accenna pure ad innervosirsi, lei seduta in poltrona su un autoveicolo in discesa. Per sovrammercato, come l’astuta automobilista sfila via si presenta un’autopattuglia dei Carabinieri. Mi arrendo a trenta metri dalla vetta, e mi risolvo a spingere la biki a piedi. Assurgo quindi all’agognata rocca, e gironzolo per il borgo neppure troppo affollato di turisti. Girando il primo angolo mi rendo conto del fatto che, se giù dalla rampa mi fossi fatto mezza domanda (una domanda intera sarebbe stata abbondante), e avessi proseguito di venti metri lungo le mura oltre la maledettissima rampa, avrei trovato una comodissima entrata al borgo, larga, quasi in piano, liscia come un biliardo, e anche profumata al gladiolo. Una volta terminato di darmi del pirla proseguo il giretto, approdando ad un’assolata panca in pietra su un terrazzino che domina il sottostante abitato ed il panorama circostante. Sfodero le cibarie più o meno in scatola acquistate all’ingresso a Castelsardo, e mi godo il solicello. A poca distanza da me una coppia di stranieri in là con gli anni si godono anche loro un panino, il panorama ed il sole. A giudicare dal loro vernacolo particolarmente roccioso devono essere dell’est europeo, e in particolare l’uomo attira la mia sdegnata attenzione gettando ogni genere di rifiuto dietro un cespuglio. Terminato il frugale pasto la sua lei si allontana per un pò, e sul terrazzino rimaniamo soli io e l’anziano ostrogoto, che mi accorgo sfodera un’acconciatura con riporto rosso tinto che muoverebbe alle risa anche Donald Trump. Mentre l’unno senescente contempla assorto il panorama, avverto un bizzarro scoppiettìo intermittente provenire dalla sua direzione, intercalato da inequivocabili sospiri di sforzo. L’esecuzione in musica dell’attempato scorreggione si protrae con ammirevole continuità per cinque minuti buoni, durante i quali a scopo cautelativo verifico la direzione del vento per non trovarmi in difficoltà respiratorie. Tra il disgustato e l’attonito rinfodero tutto e mi defilo, incolume. Scendo dalla rocca, e nella piazza principale più in basso lego la bici ad un palco per feste, una volta di più affidandomi al buon cuore e all’onestà altrui, ed entro in un bar per rinfrescarmi. Riparto verso nordest con un bel sole alto, a Valledoria esco dalla provinciale e mi addentro nel centro abitato per un caffé. Più oltre  passo per l’ampia spianata del Coghinas coltivata ad ortaggi e solcata dalla ragnatela delle canalizzazioni irrigue, là dove il fiume raggiunge il mare. Dopo Badesi la strada si fa sinuosa e ricomincia a salire, raggiungendo un modesto picco dalle parti di Paduledda e oltrepassato il quale si incontrano imponenti bastioni di rocce rosse che già si infuocano al calare del sole alle mie spalle. Ormai quasi alla fine della tappa incontro una discreta pattuglia di cicloviaggiatori stranieri in senso contrario, e provo invidia perché LORO sono in gruppo. Arrivo quindi a Vignola, e le ricerche di uno dei campeggi da me scelti per il pernottamento rimane senza esito. Ce n’è sempre un altro, incontrato cento metri prima, e forte di questo mi spingo fino ad una piazzetta rotonda lastricata di granito grigio prospiciente la spiaggia. Discreta presenza di bagnanti. Mi sdraio su un muretto in pietra, stendo le gambe e pisolo per un pò. Raccolgo quindi le ossa e mi porto al campeggio. Pratiche della sera e cena al buio (le giornate si stanno facendo visibilmente più corte).

Chilometraggio tappa: 95.6 km
Chilometraggio totale: 95.6 km
Tempo pedalato: 5h32’
Velocità media: 17.6 km/h
Velocità massima: 52.1 km/h
Salita cumulata tappa: 857 mt
Salita cumulata totale: 857 mt

GIORNO 2: 22.09.2011 – Vignola Mare - La Maddalena - Caprera – Palau


Sveglia prestissimo, colazione, toilette, impacchettamento e via. La giornata è propizia, il cielo terso e la temperatura clemente invitano alla sgambata. Come mi avvio mi ritrovo in un gruppetto di anziani ciclisti, baldanzosi a dispetto dell’età. Proseguo al loro traino, mi fa comodo per riscaldarmi, chiacchierando a turno con ciascuno di loro, mano a mano che si avvicendano in testa, sono interessati alla mia storia. Sono un gruppo di pensionati del norditalia, che hanno sbaraccato tutto e si sono reinventati il loro buen retiro nel nord della Sardegna. Mi raccontano delle loro frequentissime uscite in bici, praticamente quotidiane eccetto temporali e vento forte (il che all’atto pratico equivale a dire trecento giorni all’anno). Il traino funziona alla stragrande e in questo primo tratto la media di avanzamento è elevatissima, lungo i saliscendi verso Santa Teresa di Gallura. Sarà che loro sono stradisti e pertanto un pò troppo ortodossi, ma i nonni a pedali mi instillano con benevola noncuranza un tarlo che condizionerà gli eventi nella prossima ora: “hai la  ruota posteriore un pò sgonfia”. Un simile tarlo, in viaggio, lavora in profondità evocando aumenti di attrito e inutile dispendio di energie, aumentata usura delle ruote e delle coperture, stress e rottura dei raggi, e amenità simili. Fatto sta che il baco si insinua, si installa, e continua a fare il suo sporco mestiere. Pervaso di fastidio alla constatazione che, effettivamente, la ruota posteriore sta lavorando più piatta del desiderato, comincio a ragionare - un pò preoccupato - con la mappa al manubrio sul primo posto possibile dove dare una pompatina al tutto. Grazie anche al fatto che i nonni volanti mi distaccano ad una salita più pronunciata, riacquisto piena autonomia decisionale, e comincio a scrutare l'orizzonte alla ricerca di un'area di servizio. All'ingresso di Santa Teresa di Gallura la soluzione si offre sottoforma di Gommista. Con una breve deviazione mi porto nella locale zona artigianale, e faccio il mio insolito ingresso nell'officina nuova, tecnologicamente all'avanguardia, però miseramente deserta. Dal bugigattolo sul fondo mi adocchia colui che suppongo sia il titolare. Si avvicina incuriosito, credo immagini mi sia perso e sia lì per domandare  istruzioni sulla direzione da prendere. Le sue sopracciglia si inarcano visibilmente alla mia richiesta di gonfiare le gomme. Colto di sorpresa, il personaggio sembra prendere le distanze, e sottolinea di non avere il beccuccio adatto per le biciclette. Lo rassicuro spiegando che monto camere d'aria con valvole automobilistiche (tecnicamente: valvole Schrader), ma non pare sollevato dalla notizia. Anzi, scorgo cenni di crescente fastidio. Il meglio arriva quando, infilato il beccuccio sulla valvola, il manometro misura tre atmosfere e mezzo. Il sedicente gommista sobbalza ed esclama "Ma sei già a tre e mezzo, a quanto cazzo  vuoi arrivare?". Non comprendo la sua reazione, che reputo eccessiva, e glielo dico. Da lui dipende la mia sicurezza in strada e cerco di non contrariarlo sebbene io non stia capendo nulla di un tale comportamento. Candidamente rispondo che mi serve arrivare perlomeno a cinque atmosfere, un valore medio calcolato il carico e la percorrenza, per un copertone che può sopportarne sei e mezzo. In un crescendo rossiniano il supposto gommista si scalda, alza la voce, brandisce il crocefisso stracciandosi le vesti, si sta evidentemente trattenendo dal chiamare la neurodeliri. Mi allunga con rudezza il manometro invitandomi ad andare fuori e gonfiarmi le gomme da solo, che lui non vuole perdere un occhio a causa dello scoppio di una gomma di bicicletta. Rimango letteralmente basito, sono già un pò stanchino per la volata in compagnia della mattinata, e cerco di calmare le acque, ancora convinto di stare parlando con un tecnico di gomme e non con un giardiniere. Faccio presente che il cosiddetto valore di targa (il valore di gonfiaggio massimo riportato sul fianco del copertone) arriva fino a sei e mezzo, e pertanto non c'é nulla da temere. Rasentando il vaffanculo mi esorta sempre più vivamente a prendere il dannato manometro e andarmene fuori a ultimare l'operazione da me, aggiungendo che lui non ha mai sentito una richiesta del genere, e che a cinque atmosfere si gonfiano le gomme dei camion. Diventa tutto chiaro: il gommista-per-caso ignora che le ruote delle bici possono arrivare anche a undici atmosfere, ed è usuale per copertoni medi un gonfiaggio a otto-nove. Pertanto non è un gommista, inteso come uno che CONOSCE gli pneumatici, è un tizio in tuta che monta e smonta cerchioni con le mani sconnesse dal cervello. Siccome ho il carattere che mi ritrovo, ovvero pessimo, e non mi voglio rovinare il viaggio baccagliando con gli ignoranti, conto fino a tremila, faccio due respiri profondi, e lo mando silenziosamente a quel paese. Chiedo cortesemente scusa per il disturbo, riconsegno il tutto e lascio la scena con ordine, accompagnato dai brontolii in allontanamento dello pseudo-gommista. Probabilmente gli ho lasciato il ricordo di un episodio da riferire agli amici al bar ("Ehi, ragazzi, sentite un pò cosa mi è successo oggi!!!"), ma spero per lui che la sua sopravvivenza non dipenda dalla sua cortesia, altrimento è destinato a morir di fame. Un distributore duecento metri più in là soddisfa appieno l'esigenza, ed il viaggio può continuare più scorrevole di prima, verso mille nuove incredibili avventure. Mi addentro quindi nel centro di Santa Teresa, tra gli sguardi commiserevoli degli astanti. Una vigilessa ostenta silenziosamente il proprio biasimo adocchiando in tralice la bici appoggiata ad una fioriera, ma non mi rivolge parola, probabilmente perché non crede io possa neppure lontanamente essere italiano. Breve spuntino, e quindi mi inoltro verso Capo Testa per una diversione non prevista. Ma questo è il bello del cicloviaggio. La strada sale un pò per oltrepassare il promontorio, e cominciano a vedersi le tracce dello scempio immobiliare tipico della Sardegna del Nord, ma oramai comune anche ad altre zone dell’isola. Scorci incantevoli si aprono tra rocce e macchia mediterranea mentre mi abbasso sino al livello del mare, con la Corsica che occhieggia da oltre il braccio di mare delle Bocche di Bonifacio. La strada termina in una piazzola di parcheggio, neppure troppo affollata, da dove si prosegue a piedi fino al faro all’estremità del Capo. Un chiosco di panini offrirà  anche la soluzione per il pranzo al termine della visita. Mi inoltro con tanto di bici fino alla punta, e visito il faro. Neanche qui mancano i turisti, e noto che ce ne sono anche di italiani. Il giretto dura una mezz’oretta abbondante, durante la quale sono costretto a lasciare la bici nuovamente in balìa del buonsenso altrui addossata ad una roccia. Torno alla piazzola di parcheggio e mi concedo quindi un leggero snack con un panino alla cotoletta di pollo, melanzane sott’olio e senape. In parecchi salutano, commentano, domandano. Per tornare verso Santa Teresa incontro uno sterrato inatteso, temo di essermi perso ma invece si rivela un’utile scorciatoia. Il tratto di strada verso Palau è un divertente saliscendi, e giungo al porto per imbarcarmi verso La Maddalena e Caprera. Oramai fa davvero caldo, e la breve e pittoresca traversata la faccio al riparo del fresco all’interno del traghetto. Approdato sull’isola mi rivolgo subito verso est, intenzionato a raggiungere la Casa di Garibaldi. Nonappena al di fuori del centro abitato lo scenario è mozzafiato, l’armonia dei colori del mare e della vegetazione, adesso che il sole di metà pomeriggio comincia il suo tratto discendente, è indimenticabile. Attraverso l’avveniristico ponte che collega La Maddalena a Caprera, uno scandalo in acciaio e cemento sagomato ad arco e vagamente ispirato all’architettura nautica, che non c’entra assolutamente nulla col resto del paesaggio. Arrivato alla Casa Museo di Garibaldi con l’intenzione di visitare il museo mi accorgo di rifuggire anche solo la semplice idea di chiudermi in un edificio, e dopo una foto in stile “io c’ero” giro la testa al somaro e proseguo verso il sud di Caprera. Calette incantevoli si susseguono come scrigni di gioie nascoste, alla mia destra si vedono le imbarcazioni del famosissimo Centro Velico fare esercitazioni, si odono le urla degli istruttori. Sosto per un pò in corrispondenza del punto più meridionale a scattare foto e fare pipì, e riprendo la marcia stavolta di avvicinamento al campeggio per la sera. Ho già deciso di rinunciare al periplo completo de La Maddalena, perché domattina voglio svegliarmi di buon’ora e per oggi ne ho abbastanza. Riprendo il traghetto e filo spedito per l’alloggio della sera, un campeggio in riva al mare dal lato opposto della baia di Palau. Check-in e sistemazione, dopo un’accurata selezione della piazzola tra le molte terrazze disponibili. Mentre mi sistemo saluto una coppia olandese con bimbi nella piazzola soprastante, e dopo un poco in quella sottostante fa rientro una coppia di anziani camperisti tedeschi. Faccio spesa al minimarket e un micro giretto nel circondario. Dopo la doccia, al mio ritorno alla tenda, scopro che un ignoto benefattore mi ha lasciato una tavoletta di cioccolato: sorrido e mi guardo intorno, ma non c’é nessuno nei dintorni da ringraziare, e ripartirò da Palau senza sapere di chi sia stato il gentile omaggio. Dopo cena due passi nel campeggio, e tutti a nanna.

Chilometraggio tappa: 78 km
Chilometraggio totale: 174 km
Tempo pedalato: 5h30’
Velocità media: 16 km/h
Velocità massima: 50 km/h
Salita cumulata tappa: 815 mt
Salita cumulata totale: 1672 mt

GIORNO 3: 23.09.2011 – Palau - San Teodoro


Con l’intenzione di tentare un allungo nella tappa di oggi, mi alzo ai primi chiarori dell’alba. Non riesco a fare subito colazione, perché vengo immediatamente rapito dallo scenario che mi si presenta verso est, ove è rivolta l’apertura della tenda. Come sbuco dal mio rifugio notturno sbatto su un’alba da cartolina. Il sole si sta riaffacciando al di là del piccolo porticciolo, facendo da fondale al campeggio ancora addomentato. Le tinte sono indescrivibili, e me ne riempio gli occhi per tutto il tempo necessario a saziarmi. Mi riscuoto dal deliquio, mi attivo silenziosamente per non svegliare il vicinato, e riesco a partire ad un’ora decente. Nella scelta della direzione so già che voglio tenermi alla larga dalla Costa Smeralda: non ci tengo ad assistere una volta di più allo scempio delle coste isolane a beneficio di una fauna putrida e immeritevole. Mi dirigo pertanto direttamente per Olbia lungo la Statale, per poi percorrere la litoranea che passando da S. Teodoro mi porterà a Budoni e infine a Posada, tappa programmata di oggi. Trovo subito salite importanti, e la temperatura oggi si è fatta subito alta. Ad Arzachena compro il pranzo e tento di contattare una mia amica di gioventù, che lì ha deciso di stabilirsi, per passare a salutarla, ma senza esito. Non mi resta che tirare dritto. All’uscita del paese mi trattengo alla toilette di un’area archeologica, meditando anche una visita, ma gli orari non sono compatibili e quindi riprendo la strada. Il traffico non manca di certo, e alle porte di Olbia trovo un bel bar; mi sistemo comodamente nel parcheggio sotto un sole micidiale, e seduto sul cordolo del marciapiede, preparo e consumo i miei panini, approfittandone poi per caffé e toilette. E’ l’una, il sole mena fendenti e non c’é un filo d’aria. Forse perché ho mangiato troppo, oppure perché comincio a soffrire il caldo, fatto sta che riprendo il cammino che non mi sento esattamente un fulmine di guerra. Attraverso la città dribblando viadotti e svincoli ideati ad esclusivo agio delle quattro ruote e all’unico scopo di incanalarle da/verso il porto. Uscendo da Olbia verso sud il mio stato di opacità mentale mi gioca uno scherzo che sotto vari aspetti pagherò caro per il resto del viaggio: ad una bella rotonda, ampia e dalla visuale perfetta, male interpretando i cartelli (con l’aggravante dell’incapacità di ricorrere adeguatamente le indicazioni di mappa cartacea e GPS) mi rivolgo verso “Loiri Porto S. Paolo”, nella convinzione che “se c’è porto, c’è anche mare”. Pedalo per un pò verso ovest, in stato di seminfermità mentale, inebetito e inutilmente fiducioso. E’ la bici che sta guidando e non il ciclista. Mi risveglio parzialmente nel momento in cui cominciano a farsi sentire le prime salite toste, quando ormai è troppo tardi per rimediare a costo di una lunghissima ritirata a ritroso sui miei passi. Mi ritrovo catapultato nell’entroterra, e apprendo con sgomento  che Loiri Porto San Paolo è in realtà una località aggrappata ad un’altura a svariate decine di  chilometri di distanza dalla costa, che condivide parte del nome con la quasi omonima località di Porto San Paolo, quest’ultima sì sul mare, e nelle mie intenzioni punto di transito della mia rotta. Cercando una scappatoia non trovo di meglio che buttarmi alla prima occasione verso sud, lungo una noiosissima strada di servizio che si snoda ai piedi dei piloni della nuova superstrada 125. Percorro come in una condotta forzata una stretta valle orientata a sud - quindi sotto il sole - priva di qualunque attrattiva né punto di appoggio, né ombra né acqua né centri abitati, schermata dalla brezza marina, in attesa di raggiungere il primo sbocco verso est, e verso la costa. Tale scappatoia si materializza nella sino ad allora totalmente sconosciuta località di Lu Cupuneddi, e mi fiondo verso San Teodoro. Il morale è ormai sottoterra a causa dell’errore di rotta, e in aggiunta il ginocchio sinistro mi duole, forse a causa delo sforzo protratto lungo i saliscendi dell’entroterra percorsi in stato di tensione nervosa e postura non proprio ideale. Arrivando a San Teodoro alle 17 già so che sarà la mia tappa della sera per rifiatare. La località la conosco per avervi passato più di una vacanza in gioventù, e affronto la sosta fuori programma come un’occasione per visitare nuovamente uno dei luoghi del mio passato. Cerco quindi un campeggio seguendo le indicazioni della mia pianificazione, ma al suo posto trovo una spianata immensa adibita a parcheggio a pagamento per la spiaggia La Cinta. Mi spingo altrove, verso un altro campeggio un pò più in là. Check-in, è quasi vuoto e trovo ampie possibilità di scelta. Mi installo, poco lontano ci sono altri due cicloturisti molto più giovani, che saluto senza essere ricambiato. Faccio le mie cose, e a sera, con la bici scarica, esco per il centro del paese. Ho l’occasione di provare per la prima volta il faretto notturno della MagicShine, recente acquisto dagli Stati Uniti, che si dimostra di una potenza prodigiosa. Nella piazza principale c’è serata in musica con un complesso di cui non rammento lo stile, prendo un gelato nella gelateria rimasta immutata dai miei tempi, mi guardo un pò attorno con un paio di giretti rivisitando i miei ricordi. Nel ripartire diretto al campeggio l’attenzione della platea del gruppo musicale è distolta dal faro portuale che improvvisamente accendo sul manubrio della bici, spazzando la piazza con il fascio da un lato all’altro. Il ginocchio continua a fare male, e la cosa non depone a mio favore sapendo che c’é la scalata alla Barbagia che mi attende da lì a due giorni. Nonostante ciò preferisco non assumere medicinali. Vado a dormire un pò malmostoso e preoccupato. 

Chilometraggio tappa: 85 km
Chilometraggio totale: 269 km
Tempo pedalato: 4h50’
Velocità media: 17.3 km/h
Velocità massima: 49.2 km/h
Salita cumulata tappa: 863 mt
Salita cumulata totale: 2535 mt

GIORNO 4: 24.09.2011 – San Teodoro - Cala Ginepro


Come sveglia non c’è che dire, è qualcosa da ricordare a lungo. Alle 05.00, che ancora è buio, l’intero campeggio viene brutalmente destato dal casino infernale di uno stormo di volatili impossessatisi delle chiome degli alberi soprastanti. Il chiasso è assordante, e - a ben ascoltare i diversi tipi di verso - con tutta evidenza è in corso un’acre battaglia per il possesso del territorio tra le cornacche ivi residenti e una neoarrivata formazione di pennuti di passaggio. Dall’alto della fronzuta volta un pioggia di guano fiocca senza soluzione di continuità sulle sottostanti tende, emettendo inconfondibili “plop” con frequenza da scontro a fuoco. Col primo chiarore dell’alba la battaglia migra altrove, e in un preoccupante silenzio mi alzo per una valutazione dei danni eventualmente subìti. Ad un sommario esame  della tenda e dalla bici scopro che a me è andata bene, ma a qualcun altro stamattina toccherà dare di olio di gomito per rimuovere lo strato semiliquido e bianco-giallognolo striato giunto da lassù. Mi preparo e prendo abbrivio alle 08.30. Dopo un paio di incertezze sulla strada giusta da prendere (la maledizione del giorno prima aleggia ancora e non mi fido più di tanto del GPS né di me stesso), imbrocco la via giusta verso sud. Il tempo non è bello ed una alta cappa di nubi lattiginose smorza le ombre. In compenso – almeno inizialmente - non fa molto caldo, però il ginocchio non è andato a posto e procedo con molta circospezione senza forzare. A Budoni seconda colazione, toilette e mi concedo addirittura un quotidiano. A La Caletta mi procuro il pranzo, e verso Posada la strada è interrotta per lavori. Siccome dopo l’anno passato non mi fido più (cfr. TranSardinia South Coast, lavori in corso tra Porto Vesme e Iglesias....), mi attengo scrupolosamente alle indicazioni di deviazione senza inventarmi nulla (scoprirò poi che questa volta avrei potuto benissimo fregarmene, perché i lavori sulla pavimentazione erano già terminati e avrei risparmiato molti chilometri percorrendo tutto per me il tratto ancora chiuso alla circolazione). Il castello di Posada incombe dall’alto del suo sperone roccioso, stagliandosi sulla cappa di nubi che non accenna a dissolversi. Verso Capo Comino accosto sul ciglio della SS125, in corrispondenza del bivio che si inoltra all’interno, verso Irgoli, per riflettere: recuperare il giorno di ritardo e tagliare subito verso l’entroterra, nel tentativo di raggiungere direttamente Oliena in serata, oppure seguire la costa verso Dorgali e vada come vada? La prudenza ha il sopravvento, soprattutto a causa del ginocchio che non accenna a rimettersi (né sarebbe ragionevole supporlo in assenza di riposo, di ghiaccio e di medicinali), e proseguo quindi verso sud. Lascio la Statale e visito il faro di Capo Comino in un’afa soffocante, durante la mattinata lo strato di nubi si è infatti aperto lasciando passare il sole, che quale unico effetto ha arroventato lo strato umidissimo al suolo.  Mangio in una piazzola di parcheggio desolata e imbrattata di rifiuti, ai piedi del faro. Qualche sporadico turista fa la sua fugace comparsa. Assisto al lentissimo passaggio al largo del traghetto Genova-Arbatax, lo riconosco per avervi viaggiato solo qualche mese prima. Non mi nego un giretto tra le rovine del faro, in alcuni passaggi particolamente messe male. C’è da rischiare il collo, ma la vista dall’altra parte, verso il mare, è impagabile. Nel riprendere la strada verso la litoranea ho il mio attimo di terrore puro, grazie a due pastori abruzzesi che, usciti dal recinto del gregge, scorazzano liberi di aggredire chiunque. Il vento è a loro favore, e riescono ad avvertire il mio arrivo con grande anticipo. Tra ginocchio dolorante e peso della bici sto procedendo ancora troppo lento, e ai loro primi latrati imbufaliti in rapido avvicinamento preferisco desistere. Torno indietro per qualche centinaio di metri, lasciando alle due bestiacce il tempo di dimenticarsi di me. L’adrenalina mi viene in soccorso, più incazzato che altro (odio i cani, tutti, indistintamente) e decido una seconda sortita. Riesco a prendere una discreta accelerazione sfruttando una leggera discesa. Me la svigno in velocità, i cagnacci si accorgono di me quando ormai sono oltre la loro portata, e la loro rincorsa si esaurisce dopo poco. La mia adrenalina invece no, e continuo a rimuginare che se fossi stato in salita non avrei avuto alcuno scampo. Arrivo al campeggio ancora scosso, e non posso evitare di farne menzione all’addetto alla reception, che mi capisce, e mi confida che quei due cagnacci hanno già causato altre grane. Per rinforzare la confidenza fa una telefonata alla locale stazione dei Carabinieri per denunciare l’episodio. Anche qui il campeggio non è pieno, mi scelgo una bella piazzola e pianto la tenda accanto a due ragazze dall’aria stralunata, dimessa e annoiata. Siccome sono solo le 16.30 mi metto comodo e mi leggo il giornale in una quiete soporosa, cicale in lontananza. Di tutte le tende o camper presenti, le mie vicine di tenda sembano le uniche abitanti. Una delle due sta confezionando braccialetti e altri ammennicoli intrecciando fili, ne ha già fatto molti altri che sono posati sul terreno tutto attorno. Doccia, bucato, spesa al market, poi un’oretta sulla spiaggia deserta, poi ceno. Intanto sono tornati anche altri ospiti delle piazzole adiacenti, anch’essi tedeschi, in completo assetto da trekking (la zona si presta molto, specialmente nell’immediato entroterra). Al termine del pasto mi accorgo di avere comperato troppa uva, ne offro alle ragazze accanto (perché per una questione di limitazione di peso non posso conservare le derrate, che vanno pertanto consumate tutte e ricomprate giorno per giorno). Comincia una lunga chiacchierata di un paio di ore: sono Liv e Edda, berlinesi, e al termine della loro vacanza in Sardegna da backpackers sono rimaste bloccate lì per un giorno a causa di un forte raffreddore che ha colto una delle due (indovinate quale). Mentre parliamo si scolano meticolosamente le molte bottiglie di birra che una delle due ha portato dal market nel pomeriggio, e in particolare la più grande fuma senza soluzione di continuità, tossendo con altrettanta frequenza. Purtroppo la conversazione si raffredda bruscamente come rispondo alla loro domanda su quale sia la mia occupazione. Alle 22.30 circa decidono che si è fatta l’ora di cena, e io invece mi infodero in tenda. Domani verso Oliena comincia il bello, ginocchio permettendo.

Chilometraggio tappa: 65 km
Chilometraggio totale: 334 km
Tempo pedalato: 3h32’
Velocità media: 19.3 km/h
Velocità massima: boh?
Salita cumulata tappa: 369 mt
Salita cumulata totale: 2904 mt

GIORNO 5: 25.09.2011 – Cala Ginepro – Oliena




Nottata degna di un sanatorio di montagna: stando alla colonna sonora a base di tosse e scaracchi tutti gli ospiti del campeggio sono conciati maluccio… Al mio risveglio, molto presto, trovo in una ciabatta ai piedi della tenda un grazioso biglietto di saluti e prese in giro delle due frikkettone berlinesi della sera prima, assieme a un torroncino al mirto, molto probabilmente il capolinea della loro cena precedente. Faccio colazione che tutti sono ancora a nannina santa (e poi dicono i tedeschi foi taliani sempre kanta palla paffi neri mantolino), impacchetto tutto mentre loro si stanno appena risvegliando, poi acqua al market e mi avvio. Vengo allegramente accompagnato da tuoni provenienti dal largo, dai nuvoloni temporaleschi che spero di evitare. Il cammino è comunque coperto, scuro, e mi metto l’anima in pace, oggi in un modo o nell’altro mi toccherà prender pioggia. Sono assai inquieto per la brutale esperienza canina del giorno prima, perché so che addentrandomi nel centro, nel cuore agropastorale dell’isola, potrà solo peggiorare. Procedo verso ovest lungo un fondovalle, in uno scenario spettacolare circondato dal Monte Tuttavista, più in là cominciano a vedersi il Supramonte di Oliena e ancora più lontano il Monte Ortobene. Sosto per una visita all’area archeologica di Serra  Orrios, la signora della biglietteria mi riserva un estemporaneo “sconto simpatia” extra-listino alla vista della bicicletta. Al termine della visita – il villaggio è assai esteso, interessante e ben tenuto - mi rifocillo e vengo ghermito immantinente da un pisolino traditore. Proseguo quindi verso la sorgente carsica di Su Gologone, comincia a piovigginare e a tuonare in lontananza, verso Oliena. Giunto all’area naturalistica, piazzo la bici e la proteggo con le copertine gialle, tra lo stupore degli astanti (è domenica, il sito è frequentato di visitatori nonostante il tempo poco clemente). Riesco a visitare il rinomato sifone di Su Gologone, un ampio spacco nel terreno roccioso che sembra sprofondare verso il centro della Terra senza che se ne intuisca la fine, e dal quale scaturisce con lentezza e continuità l’acqua sorgiva alimentata dai misteriosi meandri della montagna sovrastante. Faccio giusto in tempo a trovare riparo sotto la tettoia del bar locale che comincia a piovere con convinzione e impegno. Bevo e spilucco qualcosa e ne approfitto per rivedere il tracciato GPS e prendere qualche appunto, attendendo che spiova. Mi smuovo e completo l’ultima salita di 7 km, fino ai 390 mt di quota di Oliena. Raggiungo il B&B che mi ero prefisso e prendo possesso della mia stanza. Pulito, ordinato, la proprietaria – che di nome fa Rimedia, l’esattezza regna sovrana - gentilissima e ospitale, mi offre un succo di frutta di benvenuto. Sistemo la biki sotto la tettoia-garage (senza portone ma almeno al coperto). Seguono doccia e pisolo.
La quiete è assoluta, il silenzio assume quasi una propria consistenza fisica, uno spessore caratteristico che ho conosciuto solamente in Sardegna. Il silenzio qui non è semplicemente “assenza di suoni”: è qualcosa di diverso, un’entità fisica di pari intensità ma di segno contrario, che occupa tutto lo spazio acustico altrimenti occupato delle sonorità domestiche, meccaniche, animali o umane, altrove incessanti, tartassanti. E’ la traduzione sonora del concetto di antimateria, nel quale sin da piccolo ho tuffato e imbevuto i miei migliori pisolini pomeridiani. A questo fa da contrasto il silenzio notturno, che nella Sardegna centrale è invece un caleidoscopio sonoro di cani in lontananza, alternati al richiamo delle civette nei boschi.
Il risveglio è dettato dalle campane della messa delle 17.30. Per cena chiedo consiglio e mi incammino su per il centro paese, non fa poi così freddo. Trovo la pizzeria suggeritami su uno slargo che domina la vallata sottostante, dalle finestre si ammira un incantevole paesaggio al tramonto. E’ un posto grande e affollato ma piacevole, la pizza alla dinamite è buona se accompagnata con semifreddo al torrone, un mirtino e un fiume di birra. Il rientro all’alloggio avviene in un tripudio di traffico del sabato sera, tra le strette stradine del centro paese lastricate di pietra e per nulla adatte a sopportare un tale viavai motorizzato.

Chilometraggio tappa: 58.17 km
Chilometraggio totale: 392 km o poco più
Tempo pedalato: 3h24’
Velocità media: 17 km/h
Velocità massima: boh?
Salita cumulata tappa: 591 mt
Salita cumulata totale: 3495 mt



GIORNO 6: 26.09.2011 – Oliena – Austis




Al risveglio le mie ossa cantano: un letto vero è pur sempre un letto vero, e non dovendomi occupare di riassettare il giaciglio pochi gesti sono sufficienti per sbrigarmi, e faccio colazione alle 08.00, come concordato con la proprietaria del B&B. Sono solo soletto a gustarmi il cibo. Un’altra coppia di ospiti scende discretamente dal piano di sopra, e con leggerezza ectoplasmatica scivola verso l’ingresso e scompare. Non faccio in tempo a notare se per avanzare camminino o fluttuino sospesi da terra, né se per uscire dalla porta l’abbiano effettivamente aperta o direttamente attraversata. Partenza alle 09.30. Il giorno di ritardo sulla tabella di marcia accumulato a San Teodoro mi regala una spendida giornata, ripulita dagli acquazzoni del giorno prima. Il primissimo tratto è in discesa, e godo di una vista incomparabile sulle montagne del nuorese. Alle mie spalle il Supramonte di Oliena copre ancora il sole, e mi devo allontanare per qualche chilometro per avere un po’ di luce e calore. Oltre al calore,  alla luce, alle montagne e tutto il resto sulla strada per Orgosolo mi tocca una coppia di pastori abruzzesi, piazzati in corrispondenza del cancello (aperto) di un casale che domina il cocuzzolo di un declivio, uno per lato dell’(unica) strada. Praticamente non ho scampo: non ho speranze di sfuggire loro perché dominano la salita, io sono freddo di gamba, carico, ed estraneo. Mi fermo pertanto sul ciglio della strada a vedere se percaso la soluzione si presenta da sé. Azzecco la previsione con tempismo perfetto, e da lì a due minuti si materializza un furgone che rallenta ai miei segnali. Spiego tutto al ragazzo alla guida, che non manca di manifestare tutto il suo compassionevole sbigottimento, con l’atteggiamento tra il soccorrevole e il divertito di chi vi sta aiutando a rialzarvi dopo essere scivolati sulla vostra stessa cacca. Mi aiuta a caricare la biki, e inesperto a maneggiarla si schiaccia pure un dito. Mi adatto a sorreggere la bici tutto curvo e ripiegato in tre nell’angusto vano posteriore, e percorriamo i trecento metri utili a superare l’ostacolo canino che, neppure a dirlo, già da una certa distanza comincia a latrare furiosamente e a inseguire il furgone che transita. Il passaggio di fortuna termina all’incrocio dall’altra parte del colle, ed il mio salvatore si sente in vena di condividere con me una pregna riflessione: se mi sto dirigendo verso Orgosolo e Austis, il numero di cani nei quali mi imbatterò è solamente destinato ad aumentare. Gravato da un tale funereo viatico riattacco a pedalare in una rigogliosa vallata bagnata da corsi d’acqua, molte le coltivazioni a ortaggi. Verso Orgosolo la strada, ovviamente, riprende a salire di una pendenza bella, costante e godibile, che affronto in preda all’inquietudine e all’adrenalina per i possibili e imprevedibili risvolti cinopastorali. Questi, comunque, si presentano immancabili con una certa frequenza, e allora alè e via di pedale per quanto possibile. Mi pare di scorgere una certa ripetitività nel loro comportamento, più che altro improntato a fare quanto più casino possibile ma senza essere autenticamente pericolosi sino a mordere. Giungo al termine della salita, nel centro di Orgosolo, e mi fermo in un bar per la seconda colazione. Mi sorge l’insana idea di domandare notizie sulla presenza di cani nel tratto di strada successivo: la titolare, nell’apprendere che sono figlio di sardi e sto raggiungendo Austis, si mobilita come solamente i sardi sanno fare (ma solo nel momento che loro reputano opportuno e solo essendone intimamente convinti). Comincia a domandare freneticamente a destra e a sinistra, fa due telefonate convocando con effetto immediato altrettante persone per rispondere alla mia richiesta, interpella un avventore, due passanti, blocca  l’auto di un conoscente per strada. La situazione mi sfugge di mano e temo da un momento all’altro l’arrivo di un volontario che si offra di farmi da scudo col trattore, più altri volenterosi muniti di fucile e forconi. Il tutto grazie al cielo si limita invece all’oracolo dell’esperto del paese, elargito di passaggio senza scendere dall’auto: mi descrive minuziosamente che, sì, in effetti dirigendomi verso Montes troverò un cane all’uscita dell’abitato, ma nelle giornate di sole è pigro e basta passare senza fare troppo casino. Ringrazio nell’unico modo a me consentito in un simile frangente, ovvero sbrigativamente, e prendo congedo, non prima di essere avvicinato da un turista olandese che sta girando la zona in auto, che si complimenta, mi comunica la propria ammirazione e che fa il tifo per me. Come giro l’angolo per uscire dal paese mi tocca superare un viottolo micidiale in salita, e per la seconda volta in pochi giorni mi accorgo che se mi fossi guardato meglio in giro avrei potuto fare un’altra strada più comoda e umanamente concepibile. La direzione iniziale è Mamoiada, che lascio verso sud per arrampicarmi ulteriormente sul cocuzzolo che sormonta Orgosolo, al di là del quale trovo Montes. Scopro così una specie di oasi incontaminata, verdissima, dove il bestiame circola liberamente senza recinti. Per un riflesso automatico recentemente acquisito, la prima considerazione che mi sorge alla mente è che, se non ci sono recinti per custodire il bestiame, non ci sono neppure cani da pastore che il bestiame lo deve custodire a suon di latrati.

E’, questo del bestiame libero, il sistema della pastorizia di queste terre e di queste genti da centinaia e centinaia di anni. Lo stesso sistema in uso prima dell’arrivo dei Savoia e del loro strafottutissimo Regno di Sardegna, che qui nel ‘700 ha spazzato via costumi millenari basati su questo tipo di equilibrio tra uomo e natura, grazie alla solerzia del Ministro Giovanni Battista Lorenzo Bogino (che le fiamme dell’inferno lo accolgano per l’eternità), equilibrio definitivamente frantumato un secolo dopo con la “Legge delle Chiudende”. Questa istituiva la proprietà privata imponendola con la forza delle armi, laddove sino ad allora, da tempo immemorabile, la proprietà era comunemente partecipata e gestita dagli appartenenti alle comunità locali in proporzione alle proprie forze, e forniva di che vivere a tutti in proporzione alle proprie necessità. E’ lo stesso sistema (oggi si stenterebbe anche a crederlo) sul quale era basata - ad esempio - l’autotassazione di un agnello per ciascun pastore per ricostituire il gregge a chi lo perdeva per furto o malattia, usanza ancora viva sino a pochi decenni fa.


Rimango incantato dall’atmosfera bucolica che si respira quassù, e tra un incanto e l’altro mi imbatto nel rappresentante del regno vegetale più grande mai incontrato in vita mia: una quercia dalla chioma monumentale, secondo una prudente stima basata  sulla lunghezza della bici (un paio di metri scarsi) calcolo una ventina di metri, con un tronco di almeno tre metri di diametro nel punto più largo. Lei sì che c’era già dai tempi di Bogino.... Mi ridesto e proseguo  lentamente, in piano, guardandomi attorno, paciosamente ricambiato dalle mucche stravaccate quà e là. Tra qualche saliscendi e qualche cane pastore colto di sorpresa raggiungo e supero il Lago di Govossai, una delle riserve d’acqua della zona, accuratamente recintato da altissime cancellate in corrispondenza della diga di sbarramento. Siccome i cani si stanno facendo sempre più numerosi e stanno riuscendo ad arrivare sempre più vicino, munisco la bici di un bel bastone nodoso, trovato per strada in una delle tante soste pipì. Giungo così a Fonni, il centro abitato più alto della Sardegna, e mi fermo all’ingresso del paese, all’ombra di un muro, per il pranzo. Con un successivo caffé ad un vicino bar pongo fine alla pausa e riattacco a pedalare, giungendo dopo poche centinaia di metri al punto più alto del mio viaggio, 985 metri in prossimità del centro paese. Da quel punto in poi è una lunga e scorrevolissima (forse fin troppo) discesa verso il lago di Gavoi, attraversando Ovodda alla velocità della luce senza avere però voglia di fermarmi al museo del pane, cibo per il quale la località è nota nella zona. Una volta sul ponte che scavalca il lago due foto commemorative non me le nega nessuno, dopo le quali riprendo a salire meticolosamente, pazientemente, asceticamente verso Tiana. Ascendo lungo una strada che abbraccia le pendici di un monte, curvandogli attorno al suo lato nord. Poco dopo aver girato l’estremità settentrionale e invertito la direzione verso sud la strada ricomincia a scendere, trovo una fontana e mi fermo. Trovo un tizio già lì che si sta servendo, e già che c’è, mosso dalla curiosità, domanda e vuole sapere dove sia diretto, ma soprattutto da quale clinica di igiene mentale sia scappato. Facciamo due chiacchiere mentre faccio scorta d’acqua. Riparto verso Tiana, c’è un molesto viavai di motociclisti ai quali auguro calorosamente ripetute avarie al motore. Attraverso anche questo paese, pressoché totalmente deserto: è letteralmente incastrato in mezzo ai  monti che ne chiudono gran parte del lato ovest, sud ed est. Mi tornano in mente i racconti di mio padre quando mi descriveva la brevità delle giornate invernali di Tiana, col sole che stenta a emergere dalle montagne. Proseguendo la strada scende ancora fino a fondovalle, oltrepassato il quale comincia l’ultima salita di oggi prima dell’agognata meta. Un’ascesa regolare e ininterrotta di 15 km - alletata da una  vista spettacolare sul sottostante lago - mi porta infatti dapprima ad attraversare Teti, e poi al valico di S’Urbale, con un sorriso stampato sul volto negli ultimi 2 km di salita. Praticamente è fatta, dal valico ad Austis è tutta discesa. Per celebrare il momento mi fermo a fare una foto e montare la videocamera sul manubrio. Dopo essere sfuggito all’ennesimo inseguimento canino arrivo finalmente alle 17.15, fendendo la strada principale del paese a tutta birra e irrompendo nella piazzetta antistante il vicinato di casa.
Reincontro mio padre, seduto su una panca in pietra, un pò come suo padre, suo nonno e il bisnonno prima di lui.
Ripercorrendo le tappe del viaggio, specialmente gli ultimi giorni con il ginocchio, i cani e tutto il resto, scopro che se avessi rispettato la tabella di marcia sarei arrivato la sera precedente sotto un nubifragio. Ma tanto alla tabella di marcia avevo smesso di pensarci da tempo.

Obiettivo raggiunto. A ripensarci ancora non ci credo. Mi sa che ci vorrà un altro viaggio per rendermene conto.....

Chilometraggio tappa: 73.23 km
Chilometraggio totale: 477 km o giù di lì (sommando gli arrotondamenti)
Tempo pedalato: 5h05’
Velocità media: 14.4 km/h
Velocità massima: 56 km/h (e avevo le borse che facevano resistenza...)
Salita cumulata tappa: 1152 mt
Salita cumulata totale: 4647 mt
Quota massima raggiunta: 985 mt


FAST COMMUTER D'ESTATE

Mi sveglio la mattina che c'è già luce, nonostante sia prestissimo. E questo contribuisce a risvegliarmi più velocemente.

Mi vesto in men che non si dica, perché non serve molto vestiario e durante la giornata farà ancora più caldo.

Predispongo la bici, che è lieve e riconoscente perché non gravata da tutti i fari, faretti, batterie e accessori luminosi che servono col buio.

Esco nel fresco umido del mattino, e con le prime pedalate colgo la vita già pulsante attorno a me, in contrasto con la scarsità di presenza umana. L'aria in faccia mi schiaffeggia senza che la senta.

Le coperture filano silenziose sull'asfalto, trasmettendomi ogni più piccola asperità del tracciato. E' come se mi stendessi progressivamente sull'asfalto, e vi aderissi lungo i miei usuali venti chilometri.

Avverto gli insetti che mi sfiorano, e a volte non riescono ad evitarmi.

L'aria scaldandosi mano a mano cambia odore, da un aroma di vegetazione bagnata muta in qualcosa di artificiale, assorbendo forse l'essenza dell'asfalto, del cemento, degli scarichi delle auto.

Una pedalata dopo l'altra mi scopro a ripensare a come lo stesso luogo cambi a seconda della stagione, e la mia esperienza da ciclopendolare sia composta da diversi "quadri", come scene di un film, o atti teatrali. Ogni "quadro" possiede peculiarità sensoriali a sé stanti, odore, colori predominanti, rugosità della superficie, e difficoltà tecniche differenti. Ma la transizione tra una scena e l'altra avviene con dolcezza, non è un tuffo nell'acqua ma piuttosto un immergersi progressivo in acque dalla differente temperatura e trasparenza.

Cerco in tutti i modi di non smettere di pedalare, e continuare ad avanzare, in modo da continuare ad essere investito dall'aria e non sentire l'umidità ed il caldo. I semafori rossi sono il vero inevitabile supplizio. Il caschetto raggiunge temperature interessanti.

Il sole arrostisce le parti esposte fuori dalle maniche e dai pantaloncini, creando alla lunga effetti abbronzanti a dir poco naif.

Mi disseto di quella luce che tanto mi è mancata durante le pedalate invernali, lascio che mi attraversi e mi immedesimo nel paesaggio, non semplicemente osservandolo ma facendone parte.

E quando arrivo a destinazione non è mai una fine, ma è il più bell'inizio.





sabato 19 gennaio 2013

NON E' LA STRADA IL MIO PEGGIOR NEMICO

Usando un'espressione forse un pò scontata, sto scoprendo di essere un inguaribile ottimista.

Questa è la spiegazione che mi do quando - raccontando del mio pendolarismo a pedali - la domanda ricorrente, puntuale, inevitabile e assieme ineludibile, è: "Ma non hai paura?".

Ho fatto una scelta, i cui vantaggi si allargano anche verso tutti quelli che mi circondano, oltreché per me personalmente. Assieme a migliaia di altre persone ho compiuto questa scelta che, se vivessimo in una democrazia e in un Paese civile, troverebbe un - seppur minimo - riscontro nelle scelte politiche di più alto livello così come in quelle fatte a livello di amministrazioni locali. La mia scelta mi causa un'esposizione ad un rischio, perché quel che vedo per strada spesso fa spavento, a volerlo vedere. E io lo vedo perché in bici è più facile guardarsi in giro.

E, porca puttana, ho anche scoperto che ho paura. Un paura fottuta.

Ho paura che mi mettano sotto, magari anche di morire ma quello non sarebbe neanche il peggio: ho paura "di rimanere offeso" (ricordate Rezzonico di Aldo Giovanni e Giacomo?).

Ho paura che mi spezzino le gambe e la schiena, ho paura di restare immobile a rimuginare, per il resto della mia vita (ma non sopporterei neppure un minuto), sul momento che mi ha ridotto così.

Ho paura che, distraendomi, un idiota ancora più distratto di me, ma a bordo di un'arma a motore, anziché impegnarsi a guidare il suo dannato scatolone metallico e puzzolente se ne lasci guidare in modo passivo, senza pensare.

Ho paura perché basta guardarsi intorno per vedere buche micidiali nell'asfalto, lampioni spenti col buio, guard-rail schiacciacristiani, cordoli in cemento e opere viabilistiche fatte alla cazzo di bue e a uso esclusivo delle auto, ma tutte rigorosamente a spese nostre quindi anche di chi l'auto non la usa.

Ho paura perché basta guardarsi intorno per vedere sguardi spenti alla guida, come se un malefico sortilegio, o un inspiegato fenomeno fisico, faccia nascere una patina di sporco  sugli occhi di chi si trovi al volante di un'auto.

Ho paura dell'imbecillità di chi, e ne vedo una quantità inenarrabile, tenta di guadagnare un paio decimi di secondo sorpassando e sfiorandomi di pochi centimetri, per poi fermarsi venti metri più avanti: cosa impedisce a questa gente di pensare che è sufficiente rallentare e accodarsi per ottenere lo stesso risultato senza rischiare la vita di nessuno? Perché all'estero questo comune buonsenso è usato (io testimone) e da noi no?

Ho paura che una situazione del genere possa solamente peggiorare, finché continueremo ad essere bombardati di messaggi pubblicitari via radio e TV, smaccatamente volti a impartire il messaggio dell'auto come unico mezzo per spostarsi, un mezzo vincente (ma va là...), in alcuni casi simbolo di successo e progresso (oddìo, figuriamoci...), addirittura ecologico (risate del pubblico), sebbene si tratti di una tecnologia vecchia di più di cento anni e migliorata col tempo solo di pochissimo, e dagli oggettivi limiti intrinseci tuttora invalicabili. Questi messaggi fanno presa, e la gente viene condizionata e spesso obbligata all'uso delle auto, una nuova schiavitù.

Per contro, ultimamente temo molto anche i messaggi pubblicitari assai piacioni e accattivanti, incentrati sulla bicicletta. Perché la pubblicità è essenzialmente moda, passata la quale, beh, rimarrà sempre la cara e vecchia auto, ché con la bici si suda-si fa fatica-c'è freddo-c'è caldo-mi rovino il vestito-c'è vento-ci si mette troppo e via accampando scuse.

Lo so benissimo che i rischi dell'andare in bici in città non sono fantasie, non sono impressioni, purtroppo sono fatti oggettivi (certo espressi in modo soggettivo). Circostanze che generano timore, soggezione, paura in chi non abbia coraggio sufficiente per rompere uno schema e rimettersi in discussione. Quella paura evocata nella famosa domanda, tanto ricorrente.

Ecco, il punto è proprio questo. La paura.

Ognuno è libero di farsi spaventare da ciò che preferisce.

Io voglio usare la bici nei miei spostamenti, e voglio poterla usare.

Ma adesso, sapendo cosa mi perderei a rinunciare a pedalare, il mio peggior nemico è la paura stessa.

Non ci riusciranno a guarirmi da questa malattia chiamata bicicletta.