domenica 16 dicembre 2012

UN BAGNO DI REALTA'

Diciamocelo, forse stiamo esagerando.


Noialtri col sellino sotto il culo, ritti col il naso per aria o curvi sul manubrio, che guardiamo il mondo dal di quà delle nostre solide ragioni, forse siamo un pò troppo zelanti nel renderle a gran voce, queste solide ragioni. L'effetto è, forse, di indurre quella invidia negli altri, quelli che senza un volante in mano cadono preda dell'horror vacui e lo spacciano per superiorità razziale, o in quelli che, camminando, ci vedono sfrecciare dai marciapiedi invocando targhe, caschi obbligatori e magari anche le ruote quadrate.

Il fatto è che, nel tumulto delle nostre solide ragioni, a pedalare in città c'è da rischiare la collottola. Ed è questo esatto "dettaglio" che non fa presa, non emerge, non "buca", non viene compreso nei suoi contorni reali, da vita di tutti i giorni.

E allora ci voglio provare, a spiegare cosa vuol dire usare una bicicletta per i propri spostamenti, e voglio usare un esempio della mia esperienza quotidiana, un passaggio pratico, un attraversamento ciclopedonale dalle parti di San Giuliano Milanese palesemente ideato e realizzato sotto l'effetto di stupefacenti e/o sostanze psicotrope. E voglio provare a rendere una pallida idea di quali e quanto veloci debbano essere i processi mentali di un ciclista mediamente intenzionato a sopravvivere.


Il presupposto iniziale è che siete perfettamente in ordine di marcia da ciclista scrupoloso.  Siete pertanto dotati di una bicicletta efficiente, coi freni funzionanti, ruote gonfie, luci e catarifrangenti come da regolamento. Ora, provate a mettervi nei panni di chi procede verso sud lungo la pista ciclabile (1), a una velocità normale per una bicicletta, diciamo 20-22 all'ora. Il che equivale a coprire circa 6 metri in un secondo.
Questa pista ciclabile, ad un certo punto, giunge a un attraversamento (2) con una strada che alla vostra sinistra e avanti esce da un parcheggio (3): si suppone pertanto che le auto che giungano da tale direzione vi arrivino a velocità da parcheggio. Si suppone.
Alla vostra destra, invece, al di là di un guard rail scorre il tratto iniziale cittadino della Via Emilia, un'umile statale travestita da arteria a grande scorrimento, le cui corsie (4) e (5) sono separate in quel tratto da una doppia striscia continua. Velocità media stimata delle auto tra i 60 e i 70, con punte di 90. Per vostra osservazione diretta, mettiamo che sapete già che un numero significativo, ma randomico, di automobilisti suole svoltare in senso vietato (6), e lo fa in velocità perché in quel punto non si può e bisogna schivare il traffico in senso opposto.

Bene, se siete quel ciclista sappiate che mentre pedalate i passi da fare e i punti da tenere d'occhio avvicinandosi all'intersezione con tutta probabilità dovrebbero essere i seguenti:

1. è un punto pericoloso, per sicurezza devo rallentare
2. rallentando, se ho il cambio devo scalare marcia
3. se ho i pedali a scatto o i fermapiedi, devo liberare i piedi
4. arriva qualcuno da sinistra? mi avrà visto che sto avanzando in senso opposto? Si sarà accorto che sta attraversando una pista ciclopedonale e che deve essere lui a rallentare e fermarsi perché ho io la precedenza?
5. arriva qualcuno da destra in senso opposto? mi avrà visto? Si sarà accorto che sta attraversando una pista ciclopedonale e che deve essere lui a rallentare e fermarsi perché ho io la precedenza?
6. arriva qualcuno da destra nel mio stesso senso, cioè dietro di me? Mi avrà visto, considerato che dalla sua direzione io sono celato dal guard rail? Accenna, almeno un pò, a rallentare, visto che di suo sta giocando alla roulette russa attraversando una doppia striscia in ora di punta e ha fretta di togliersi di torno?

E occhio che, se non volete fermarvi, il tutto va pensato e attuato in tre-quattro secondi, non di più, girando la testa di quà e di là e cogliendo al volo l'avvicinarsi di eventuali potenziali omicidi, e - per cinque mesi l'anno - in condizioni di buio o pioggia.

Ok, una volta ripetuto l'esperimento con continuità per tre-quattro annetti scoprirete che:
  • pressoché tutti ignorano che quella è un'intersezione ciclopedonale, perché solo aguzzando gli occhi vi accorgerete che la vostra incolumità è affidata ad una scalcinata segnaletica orizzontale ormai sbiadita e semi-invisibile;
  • coloro i quali sanno che lì vi è una tale intersezione, allo stesso tempo ignorano che ciò equivale a concedere la precedenza alle bici, (traduz: FERMANDOSI ALLE STRISCE);
  • coloro i quali concedono la precedenza alle bici, lo fanno però all'ultimo momento, inchiodando, e sfiorandovi col paraurti in preda a malevolo stupore;
  • coloro che escono dal parcheggio (3) lo fanno come se uscissero dalla pit-lane dopo un cambio gomme, e avendo il Fisco alle calcagna.
Diciamocelo, noi ciclisti stiamo esagerando, a parlare.

Ogni tanto, quando cercano di uccidermi in quella intersezione (tre volte nell'ultimo mese) mi verrebbe tanta voglia di essere più ESPRESSIVO senza SBRAITARE e passare direttamente ALLE VIE DI FATTO.




martedì 6 novembre 2012

DARWINISMO SUI PEDALI

Ultimamente si fa un gran parlare e scrivere dell'aumentata propensione della gente all'uso della bicicletta come veicolo per gli spostamenti individuali su base quotidiana. Bene.

Personalmente posso aggiungere che un tale fenomeno è chiaramente visibile: oggettivamente si vedono più ciclisti in giro, anche nel tratto extraurbano che percorro io abitualmente, a sud di Milano.

C'è un "però".

L'aumento, per adesso timido, dei pendolari in bicicletta non equivale automaticamente ad un parallelo aumento della consapevolezza di cosa comporti fare il pendolare in bici. Questo perché soffriamo tuttora come Paese il diffuso preconcetto che la bicicletta sia un veicolo di serie Z, un mezzo per il tempo libero, tuttalpiù da adottarsi in situazioni di emergenza come quelle attuali.

Fermo restando che una semplificazione, qui necessaria per meglio illustrare un fenomeno, incontra sempre dei limiti, sulla base della mia esperienza diretta plurisettimanale penso sia possibile operare una distinzione piuttosto netta nel gruppo dei pendolari a pedali:

  • chi di questa pratica ne ha e ne fa un'idea ben precisa, basata su solide convinzioni di ordine anche socio-economico e ambientale, di salute e di stile di vita. Gli appartenenti a questa categoria nutrono una consapevolezza più o meno profonda dei propri diritti e doveri, e dei rischi connessi al pendolarismo a pedali in relazione alla convivenza con le automobili. Ciò si manifesta anche con l'adesione a gruppi, a scambio di informazioni e consigli per migliorare l'esperienza su due ruote si base quotidiana e magari anche nel tempo libero (categoria alla quale mi onoro di appartenere);
  • chi di questa pratica ha fatto di necessità virtù, adattandosi a usare due ruote anziché quattro. La bici viene vissuta come un ripiego necessario ma non sufficiente, in attesa di tempi migliori. L'approccio alla strada degli appartenenti a questa categoria è dimesso, senza pretese, da ospite sgradito (categoria nei confronti della quale nutro simpatia, e per gli appartenenti alla quale mi piacerebbe fosse fatto di più per incentivarli).

La più evidente conseguenza della diversità di atteggiamento di queste due categorie è l'attitudine a soccombere.

Mi spiego meglio.

VISIBILITA':
  • la prima categoria, quella dei "consapevoli", è chiaramente riconoscibile anche a distanza, per il semplice fatto che, avendo bene in mente quali rischi si corrano a pedalare in mezzo alle auto in un Paese che talvolta si fatica a definire civile, si adornano di ogni dispositivo luminoso e riflettente, nel tentativo di ridurre il pericolo di non essere visti;
  • la seconda categoria, quella della "necessità virtù", nulla di tutto ciò. Sono completamente neutri, senza illuminazione né alcun cenno di banda riflettente. Niente. Invisibili. Credo addirittura radar-assorbenti. Se ne stanno a pedalare sul bordo di Statali o Provinciali trafficatissime, all'imbrunire, magari vestiti di scuro, perfettamente invisibili se non illuminati dai fari delle auto o degli sporadici lampioni.
CONDOTTA DEL MEZZO:

  • i "consapevoli", ne discende dal nome della categoria, in virtù della loro informazione hanno imparato dagli errori altrui,  conoscono quali pericoli vi siano nel traffico automobilistico e  pertanto sono prudenti: si muovono nel traffico con cautela e con sicurezza quando è possibile. Un ciclista consapevole tende a "pensare" in anticipo le mosse delle auto avanti a sé, riuscendo con buona probabilità a prevederle e ad adeguarsi in sicurezza. Tende inoltre a comportarsi senza soggezioni nei confronti degli automobilisti: segnala con decisione i cambi di direzione, guarda i guidatori dritti in faccia (non so descrivere quali meravigliosi effetti produca un semplice sguardo di un ciclista diretto in faccia a un guidatore: quasi sempre induce in quest'ultimo per la prima volta la percezione di trovarsi di fronte a un altro essere umano e non un'ombra indistinta a bordo strada);
  • i "virtuosi necessari", in quanto inesperti, tendono a subire gli effetti del traffico anziché prevederli, a scegliere traiettorie non propriamente esenti da rischi e apparendo così incerti. Quale conseguenza tendono - con maggiore probabilità - a causare inchiodate,  colpi di clacson, reazioni spazientite da parte dei guidatori, se non addirittura avvicinandosi a vere e proprie collisioni.
MANUTENZIONE DEL MEZZO:

  • i "consapevoli", sulla base della propria esperienza, sanno che la sicurezza in strada e la propria incolumità dipendono in proporzione diretta dall'efficienza del mezzo a pedali. Ne curano pertanto la manutenzione, con effetti visibilissimi anche da lontano.
  • per le motivazioni sopra esposte, i  "virtuosi necessari" - che sino a pochi giorni prima consideravano la bici come buona solo per le domeniche pomeriggio primaverili (in estate invece no perché fa troppo caldo) - ripescano il "cancello" del nonno dallo sgabuzzino condominiale e, esattamente nello stato in cui si trova, ci montano su e attaccano a pedalare, con effetti visibilissimi anche da lontano anche nel loro caso. E' facile infatti ritrovarsi gente che pedala praticamente sui cerchioni tanto sono sgonfie le ruote, o con i catarifrangenti rotti, o con i fanalini regolarmente accesi ma di una luce asfittica, a causa di una dinamo vecchia. Onde evitare di scivolare nel catastrofico ometto deliberatamente di menzionare l'efficienza dei freni (e occhio che si muore, se i freni non vanno).

Solo il giorno prima di scrivere queste righe, nei miei usuali 50 minuti di bici rincasando da lavoro, ne ho visti quattro di personaggi del genere. Quattro in venti chilometri, fanno uno ogni cinque, un'enormità. Gli ultimi due li ho incocciati ben oltre il tramonto, quando la luce dei miei due faretti LED cominciava ad essere indispensabile e non semplicemente utile, lungo una provinciale ad alto scorrimento con rampe e svincoli. Uno di questi in particolare - a fatica intravisto all'imbrunire - si dirigeva lungo la rampa di accesso ad una statale.

Ora qualche intima considerazione.

Personalmente, essendomi messo in testa di viaggiare anche in inverno, con il buio anticipato della brutta stagione, ho equipaggiato a poco a poco la bici - investendo modiche somme per volta - con tutto quello che serve, e che è descritto nel Codice della Strada, art. 68,  e nel suo Regolamento di Attuazione, art. 124. L'impegno economico è stato spalmato in un arco di tempo di quattro anni, reinvestendo parte del risparmio conseguente dal ridotto uso dell'auto.

Allo stesso tempo ho imparato a fottermene bellamente dei lazzi e frizzi della gente che mi sfotte perché quando vado in giro sembro un albero di Natale. Se ridono di me vuol dire innanzitutto che mi hanno VISTO, e questo semplice fatto in sé riduce la possibilità di essere tirato sotto (a meno di atto deliberato). Eppure la mia bici è semplicemente equipaggiata con quello che prevede la Legge, con le piccole aggiunte di due LED rossi ai mozzi delle ruote e due blu/verdi alle valvole delle camere d'aria: evidentemente vi è una radicata disabitudine a ciò che è "regolamentare".

(A scanso di equivoci desidererei specificare che le persone da me notate in giro al buio senza luci non sono solamente, come si sente e si legge spesso, "gli extracomunitari". E' invece palesemente gente italianissima che ignora di poter morire in modo stupido, peraltro coinvolgendo un automobilista magari in perfetta buona fede. Si muore anche per un urto a 50 all'ora).

Nel mare delle generalizzate lamentele sui ciclisti (che mi fanno incazzare e alle quali regisco sempre), sto sentendo spesso di automobilisti che si lamentano in particolare dei ciclisti "stealth". Onestamente, per quanto mi sforzi di attingere al mio solido bagaglio di argomentazioni non so dare loro torto.
Per converso mi è recentemente capitato di ricevere apprezzamenti per il mio equipaggimento, che evidentemente - in quanto visibilissimo anche da lontano - suscita sicurezza anche negli altri (ovviamente in coloro che non scoppiano a ridere).

Come ciclista convinto la mia principale frustrazione risiede nel fatto che bastano quindici euro, se non addirittura meno, per rendere perfettamente visibile una bici ed il suo ciclista da lontano.

In una società ad altissimo tasso di conflittualità come la nostra, in cui i ciclisti devono sgomitare per farsi vedere e sentire e ascoltare, per affermare la propria presenza sulle strade in alternativa al dogma automobilistico imperante, è davvero un peccato fornire a coloro i quali  avversano una tale "rinascita" il vetusto argomento della "tragica fatalità", del "se l'è andata a cercare", dell'"imprudenza" con cui sempre si coprono le responsabilità di chi, al contempo, guida come se fosse da solo sulle strade.

Ciclisti, ora che la bici ci ha illuminati dentro, illuminiamoci ANCHE FUORI.

QUI trovate il video diffuso in Italia dalla FIAB (Federazione Italiana Amici della Bicicletta) "IL CICLISTA ILLUMINATO", con una "illuminante" descrizione dei rischi associati alla circolazione in caso di scarsa visibilità. Il video originale è di produzione svizzera (e quando mai.....).

venerdì 2 novembre 2012

MUTAZIONI


Apro gli occhi.

Azzurro. Sto fissando il cielo più azzurro che mi ricordi da un bel pezzo in qua.

Sotto le mani una sensazione morbida e fresca di erba.

Il vento risale dalla valle alla mia destra, accarezza gli alberi ottenendone una sottile musica.

Mi concedo il tempo per riprendermi, assaporando un senso alla volta.

Mi riscuoto e mi metto a sedere. Il cartello davanti a me, dall'altra parte della strada più in basso a trenta metri, mi ricorda che sono sul valico del Col de Sorba, a 1.311 metri nel cuore della Corsica. E' talmente malconcio, graffiato, scrostato, pasticciato e vilipeso che le indicazioni originarie si devono quasi intuire.

Sono tre giorni che pedalo in montagna nel centro dell'isola, e mi sono guadagnato un pò di respiro dopo la canicola soffocante della costa occidentale.

Sono arrivato qui salendo da Ghisoni, dove al locale emporio la commessa più racchia e al contempo gentile del cosmo mi ha fatto scoprire un salume locale, rivelatosi alla prova dei fatti una leccornia.

Ed è con quel sapore in bocca e lo stomaco pieno che ripercorro mentalmente la mattinata.

Il risveglio nella piazzola sottostante il rifugio sul Col de Verde, in tenda in mezzo al bosco.

L'aria fina che mi schiaffeggia nonappena metto il naso fuori, e il brulichìo degli altri escursionisti che ripongono tutte le loro cose prima di riprendere la via.

La fila all'unico lavabo, all'aperto e senza acqua calda, in un diffuso vociare transalpino. Atmosfera promiscua e cameratesca.

Il gestore del rifugio che, sporgendosi dalla balconata verso le sottostanti piazzole, caccia un urlo inconfondibile richiamando tutti alla colazione. Pane grezzo cotto a legna, due tipi di marmellata, cioccolata calda.

L'usuale raccolta e impacchettamento di tutte le mie cose, le foto di rito, la partenza in discesa, a freddo e lungo un crinale in ombra, che impone di coprirmi bene, a dispetto dell'ultima decade di un giugno che altrove cuoce le persone a fuoco lento.

I tre quarti d'ora di curve, tornanti e controtornanti ammantati di bosco, senza girare un pedale e senza traccia di vita umana, avvertendo sensibilmente la temperatura crescere al diminuire della quota.

La pausa per la seconda colazione sulla sponda in pietra di un ponticello, e la voglia di un caffé caldo prontamente soddisfatta con fornelletto e caffettiera (la magia dell'essere autonomo in bicicletta).

La spesa all'emporio, il pane appena sfornato, caldo e croccante.

I quasi venti chilometri di salita fino al Col de Sorba, con la visuale aperta verso est, e cime imponenti che osservano senza scomporsi la formica a pedali.

Il "Bon appetit" rivolto agli operai del cantiere stradale che stanno consumando il loro pranzo compitamente seduti in fila a bordo strada, e il loro "Merci" all'unisono.

L'arrivo al valico, schivando una mucca al centro della strada, per niente infastidita.

Il pranzo con pane e salame freschi, osservando il viavai dei turisti da una posizione leggermente sopraelevata.

Godermi lo stupore di chi, soffermandosi per qualche foto o per ammirare il paesaggio, mi vede con la bici e trasecola. Un signore un pò più audace mi dà esplicitamente del pazzo.

E' il penultimo giorno del mio giro in Corsica, e nei prossimi minuti comincerà l'ultima vera discesa, in direzione di Corte.

Ci sono luoghi in cui esiste solo il presente indicativo. Luoghi nei quali tu SEI, STAI, SENTI, VIVI.
Luoghi dapprima immaginati a lungo, e poi raggiunti sudando, concentrando le tue forze, avvertendo lo scorrere della strada sotto le tue ruote, un giorno dopo l’altro, una sosta dopo l’altra, un respiro dopo l’altro. Luoghi magari in culo al mondo, dai quali osservare un deserto, un oceano, o le vette circostanti. E tu stai lì, SEI lì.
Chiudi gli occhi, il tuo spirito affamato e assetato di vita che metabolizza la stanchezza depurando l’esperienza come la pula dal grano, i tuoi sensi si racchiudono e nel buio delle palpebre il tuo essere, il tuo stare, il tuo sentire si comprimono sempre più velocemente verso un punto solo dentro di te, il baricentro del tuo universo, l’asse di rotazione del tuo personalissimo pianeta.

Tutte le strade che hai percorso, i passi che hai fatto, le persone che hai incontrato, i tuoi errori, le emozioni, gli scenari ai quali hai assistito da solo - con la certezza che non avrai mai aggettivi, parole o immagini per poterli raccontare, e allora te li tieni dentro te, dolci e densi – tutto ciò che hai vissuto viene attratto  in silenzioso tumulto diventando quel solo, infinitesimo punto - adesso è visibile, lo senti, è lo scrigno delle tue motivazioni - e acquista un nuovo come, un nuovo perché.

E quando tutto è concentrato in quel solo punto, come un'ineludibile domanda, allora, dopo un istante, questo tutto fornisce la sua risposta, ed esplode.

Riapri gli occhi bevendo sorsate d’aria come dopo un’apnea, i tuoi sensi acuiti da questa tua nuova consapevolezza, ogni tua azione è più piena, ogni nuovo pensiero più maturo.

Mi sento in alto, non solo dal punto di vista della quota geografica.

Faccio il pieno di quest'aria, di questa luce, di questi odori, di queste sensazioni, qui e ora, ma allo stesso tempo per la prima volta scaturisce il pensiero di tornare a casa.

Nel momento in cui salgo in bici per riprendere la strada so di non essere la stessa persona che da quella stessa bici è scesa un'ora fa.




mercoledì 31 ottobre 2012

IL DOPO

Dopo aver raggiunto ciò che ti eri convinto fosse il tuo limite, ed averlo oltrepassato,

dopo aver affrontato una discesa piena di curve col sorriso stampato in faccia,

dopo aver pianto di meraviglia scoprendo un lago alpino al termine di una salita di venti chilometri,

dopo aver riconosciuto il tuo stesso sguardo negli occhi di un altro cicloviaggiatore, incontrato per caso in mezzo al nulla,

dopo avere affrontato la paura dei cani randagi, e dei cani da pastore,

dopo avere pedalato contro un maestrale da 100 all'ora per 100 chilometri, e aver fatto pari e patta;

dopo avere conosciuto che i rimedi a fame, sete, freddo, caldo e fatica stanno sempre un metro oltre la tua ruota anteriore,

dopo avere conosciuto quanta nostalgia richiami il ricordo di quella stessa fame, sete, freddo, caldo e fatica, mentre sei fermo in coda in auto per andare a lavoro, mesi dopo il tuo ritorno,

dopo aver ammesso - soprattutto a te stesso - di non conoscere il vero motivo che ti spinge a viaggiare in bicicletta per giorni in posti sconosciuti, e per trovarlo hai bisogno di partire di nuovo,

dopo avere pazientemente rodato e provato l'armonia tra il motore delle tue gambe, la guida delle tue braccia, la consapevolezza nella tua mente e la curiosità nei tuoi occhi,

dopo avere ricevuto sorrisi, incitamenti, regali e saluti da perfetti sconosciuti,

dopo esserti trovato a tuo agio sotto un acquazzone,

dopo esserti trovato a disagio in mezzo al traffico di una città a te estranea, ma  soffocata dalle auto esattamente come la tua Milano,

dopo aver conosciuto la difficoltà di addormentarti per la troppa stanchezza, o per il troppo silenzio,

ora che sai quanta vita ci sia in un bosco in montagna di notte,



dopo avere conosciuto quanta rinuncia contenga una coda di auto incolonnate, passando loro accanto in bici,

dopo avere costituito l'unica forma di vita umana per decine di chilometri,

dopo avere pedalato in compagnia del grifone, che ti teneva d'occhio veleggiando a dieci metri da te, guardandovi in faccia,

dopo avere mangiato una pizza a fine tappa con gli occhi chiusi dalla stanchezza, esserti addormentato sul piatto subito dopo ed essere stato svegliato dal cameriere, alla chiusura del ristorante,

dopo avere imparato cosa significa mollare su due piedi la bici sul parapetto di un ponticello, e approfittare del ruscello sottostante per un bagno, per poi ripartire meglio di prima,

dopo avere parlato da solo, all'imbrunire, per tenerti sveglio e farti coraggio per concludere  una tappa interminabile,

dopo avere guardato dal basso la tua prossima salita con rispetto e deferenza, e arrivato in cima voltarti indietro e sentire che quella salita metro dopo metro l'hai assorbita dentro, la porti dentro, te la porterai per sempre dentro, e da quel momento in poi sarà una delle misure del tuo essere,

dopo che hai conosciuto quanto devastante potere un saliscendi protratto per ore abbia sulla  tua volontà di avanzare,

dopo avere imparato a riconoscere i cambiamenti del tempo fiutando l'aria,

dopo avere conosciuto cosa significa non parlare con nessuno per ore, talvolta giorni, e tutto sommato non sentirne la mancanza,

dopo avere contratto il tuo tempo entro la prospettiva infinitesimale della prossima sosta, il prossimo centro abitato, la prossima curva, la prossima salita, il prossimo chilometro, la prossima pedalata, la prossima sorsata, il prossimo respiro,

dopo avere scoperto quanto ti senti vivo quando sei morto di fatica,

adesso che sai quanto ti sia difficile trovare le parole per spiegare agli altri ciò che hai vissuto,

dopo tutto questo, quando ritorni a casa dopo un viaggio in bicicletta,

ma come fai a tornare alla normalità?





sabato 27 ottobre 2012

MEDICINE...

... ovvero quei video che riescono a ottenere una forza espressiva pazzesca partendo da poche, semplici cose: un'immagine, una semplice parola, un'ambientazione.
E ricordi e sensazioni scoppiano dentro, vissute in viaggio su una strada, sotto il sole e in mezzo al nulla ma senza per questo provare solitudine. Io i miei tatuaggi li porto dentro.

Questo post è una specie di serbatoio, una ciambella di salvataggio, una cassetta di pronto soccorso per le giornate uggiose, quelle con la voglia di caricare la bici e macinare quelle centinaia di chilometri in un territorio mai conosciuto prima, di farti assorbire da un paesaggio, di ammirare un tramonto dalle tinte mai viste, di comunicare con persone che con capiscono la tua lingua, ma capiscono cosa significhi essere giunto su una bicicletta carica di bagagli.

Questo post comincia con due video; non escludo che se ne aggiungano altri in futuro. Vi invito pertanto a tenere d'occhio l'evoluzione di questo post.

Sappiate farne buon uso, per rimanere vivi dentro.







  • IMPOSSIBLE IS NOTHING (LO, SO, FONDAMENTALMENTE E' UN COMMERCIAL, MA CHISSENEFREGA, A ME PIACE E DICE COSE BELLE)





sabato 6 ottobre 2012

A ME UN BADILE, PLEASE!!!

Viaggiare in bici è bello per tanti motivi.

Uno di questi è il contatto con le persone, diretto, personale, visivo, olfattivo, e se vuoi anche tattile.

Ciò apre la via a una delle più potenti leve del progresso umano: la conoscenza.

Conoscenza di diversi stili di vita, di altri modi di esistere e di vivere (non sono la stessa cosa, non coincidono), pensare e comportarsi. Da questo tipo di conoscenza ho tratto quelle che annovero tra le mie più grandi lezioni.

Una di queste l'ho avuta di recente.

CorsicaTour 2012.

Bonifacio, parente povera di Saint Tropez.

Arrivo nella ridente località di sabato pomeriggio, al momento dello struscio e dell'esibizione, con alle spalle quattro giorni e 400 km pedalati tra afa, fatica, sudore, raffreddore e malumore. Soddisfacenti ma impegnativi.

La temperatura crematoria suggerisce una pausa prima degli ultimi cinque km per raggiungere il campeggio della sera.

Decido quindi di unirmi allo struscio lungo la passeggiata che costeggia il molo del porto vecchio, alla cui sinistra si dipana una teoria di dehors dei vari bar e baretti, a quell'ora frequentatissimi per aperitivo e happy hours.

Sfilo a passo d'uomo senza scendere dalla bici, incuriosito dalla fauna abbronzata e in tiro, mollemente stravaccata sui divanetti. Un'andata lungo il molo e un ritorno da una stradina parallela, mezz'oretta in tutto inclusa la spesa ad un market. Mi ritrovo quindi al punto di partenza, mi godo un deejay set al tramonto con aperitivo, sempre senza scendere dalla bici.

Vengo avvicinato da una pattuglia in mountain bike della locale Gendarmerie, a malapena cinquant'anni in due. Con un inglese all'altezza della situazione vengo garbatamente redarguito dai due baldi ragazzotti per avere percorso un'area pedonale senza scendere dalla bici. Mi fanno elegantemente presente che avrei dovuto condurre la bici a mano.

E, senza darmi il tempo di profferir parola, mi elargiscono gratuitamente la lezione personalizzata del giorno, della settimana, del mese, anno, lustro, ventennio, secolo. Una lezione di vita:

"Signore, Lei deve scegliere tra essere veicolo o essere pedone".

Così, senza scomporsi, senza alcun accenno di autoritarismo, né la minima aggressività nel linguaggio verbale o corporeo, due sani ragazzotti incaricati di pubblico servizio perseguono il loro dovere con equilibrio, forti dell'incarico a loro affidato per la comune incolumità. Non stanno esibendo il loro potere, stanno solo richiamando una regola accettata da tutti quaggiù. Sono quasi imbarazzati a doverlo far notare, quasi come se da noi qualcuno fosse, che so, costretto a far notare che non si infilano le dita nel naso o non ci si gratta il pacco.

Puro, sano e luminoso buonsenso comune, pacatamente richiamato e fatto valere in un soleggiato sabato pomeriggio nel sud della Corsica.

E vaglielo a spiegare che da noi invece c'è gente che va in bici sui marciapiedi altrimenti in strada muore, che passa sulle strisce pedonali in bici senza scendere perché mancano le piste ciclabili dedicate con segnaletica specifica, che lascia le bici attaccate col catenaccio ovunque perché non c'è traccia di rastrelliera. E tanti altri comportamenti che - seppure irregolari e contro le regole in sé - non vengono neppure più notati in quanto, nel frattempo, ci siamo assuefatti a chi va ai novanta in città, a chi non lascia passare i pedoni, a chi brucia il rosso scattando sul giallo e fermandosi in coda trenta metri più avanti, a chi non si ferma neppure se investe qualcuno, a chi vorrebbe essere ringraziato quando decide di non falciare i ciclisti e, nonostante una tale affermazione a mezzo stampa rimane a piede libero, deambula senza complicazioni motorie e senza lividi sul volto, e continua a condurre la propria esecrabile  esistenza di potenziale omicida e istigatore a delinquere.

Ora: va bene che ho palesemente sbagliato e avrei dovuto arrivarci da me, ma perché da noi no?

(Poi però i due ragazzotti, adempiuto al dovere e ricevute le mie più profonde scuse, non si trattengono e mi sommergono di domande sulla mia provenienza, se sono da solo, che tragitto sto facendo, quanti km ho già fatto, etc. Un ciclista rimane un ciclista anche se veste un'uniforme e si occupa di tutelare l'ordine pubblico).

martedì 2 ottobre 2012

A TRE CENTIMETRI DALLA FINE

Io non sono religioso.
Non sono neppure un bestemmiatore, ma non sono religioso.
Il che mi porta a non attendermi granché da ciò che mi circonda, e mi sforzo di creare da me ciò di cui ho bisogno io e la mia famiglia.
Ciò mi porta anche a non credere a qualcosa, qualcuno o altro che dirige, controlla, guida la mia esistenza terrena.
Ma devo ammettere che c'é stato almeno un istante, un momento, un millesimo di secondo in cui non è stato così. E per tutto il tempo che ne è seguito devo ammettere di averci riflettuto, qualche volta.
Pomeriggio tardi di fine novembre, qualche anno fa.
E' buio, e io sto tornando da lavoro lungo una provinciale non illuminata, ma comunque larga e con quasi un metro di spazio a destra, tra la striscia bianca ed il ciglio dell'asfalto.
La bici ha due luci a LED che sparano avanti, per chi le vuole notare.
Il traffico è scorrevole e regolare lungo il bel rettilineo sul quale si aprono gli accessi alla viabilità rurale circostante che collega alcune cascine.
La gamba tiene bene, e io sto filando attorno a trentacinque all'ora accucciato a uovo.
Due, tre, quattro auto in rapida successione mi superano, lasciando poi un varco di qualche centinaio di metri con quelle che seguono.
Ed eccolo lì, il coglione che non ti aspetti.
Provenendo dalla direzione opposta, due massicci fanali a più di mezzo metro da terra (sicuro indice di SUV o di pick-up) prendono il via dalla mezzeria della strada, dove erano in paziente attesa del varco, e scattano in avanti tagliando la corsia dalla mia sinistra verso destra con l'intenzione di imboccare un viottolo laterale, dieci metri prima del mio passaggio.
Ma l'automunito, avvedendosi delle due trascurabili lucine in avvicinamento più rapido di quanto immaginato, inchioda di traverso a metà corsia.
L'abbrivio impartito al pachidermico mezzo al momento dell'accelerata non consente però una frenata immediata ed efficiente: lo spigolo sinistro dell'autoblindo si ferma cinque metri davanti a me.
A trentacinque all'ora, in postura raccolta, in combinazione invernale, con un ostacolo fisso che compare all'improvviso a cinque metri, sapendo che alla mia destra c'é un guard-rail e, oltre il buio, il fosso con l'acqua.

Ciò che ricordo da questo momento in poi è al rallentatore per i successivi tre secondi.

Accenno - perché non mi è consentito fare di più - uno scarto sulla destra. Più che uno scarto è uno spostamento di qualche millimetro del baricentro del corpo, sposto la testa, il gomito, il lobo dell'orecchio, un paio di organi interni e anche il sopracciglio. Per aggiustare la traiettoria tento di inclinare la bici, appiattisco la gamba sinistra contro il telaio, ma non ho il tempo di alzarmi sul sellino per flettermi né di aggiustare l'orientamento del pedale per non agganciare il paraurti. Non ho neppure il tempo di stupirmi, o di incazzarmi.
Un istante dopo mi tuffo nel doppio abbacinante fascio di luce dei fanali del simil-autocarro,  quasi all'altezza della mia faccia, con l'effetto di cancellare ogni riferimento circostante. Riesco nettamente a distinguere le rigature dei settori e i codici del fanale stampigliati sul vetro (quanto vicini bisogna essere per riuscirci?). Il suono del motore è un impulso ovattato, anche per effetto del passamontagna.
Aspetto l'urto.
L'istante successivo sto pedalando nella pece, ancora verticale, incredulo.
Per un secondo pedalo senza cognizione della direzione, so di avere deviato leggermente ma per l'abbagliamento improvviso dei fanali di un secondo fa non vedo dove sto andando e sto filando ai trenta all'ora.
Riesco finalmente a distinguere il bordo strada. Mi raddrizzo e riprendo a pedalare.
E solo allora arriva l'adrenalina, che mi brucia le energie che avevo fino a quel momento, e mi fa sentire fiacco e vuoto. Arrivo a casa spossato che neppure avessi fatto l'Alpe d'Huez.
Io non so se esiste qualcosa, qualcuno o altro che dirige, controlla, guida la mia esistenza terrena.
Ma una botta di culo ogni tanto ha sempre il suo perché.



venerdì 14 settembre 2012

ISTINTI COMPULSIVI




Si sa, siamo tutti un pò bestie dentro.


Chi meno, chi di più.
I rappresentanti di quest'ultima schiera, ad esempio, si riconoscono principalmente per l'impossibilità di trattenere i loro impulsi, indipendentemente dal contesto (ammettendo che: impulso = bestia, analizzare il contesto e adeguare il proprio comportamento = essere evoluto).
Ora, siccome viene dato per scontato che tutti noi possediamo un alto grado di autocontrollo che ci pone al vertice di una certa evoluzione, MA PERCHE' CACCHIO QUANDO MI FERMO A FARE PIPI' A BORDO STRADA GLI AUTOMOBILISTI CHE PASSANO CEDONO ALL'ISTINTO IRREFRENABILE DI SUONARE IL CLACSON ??????
Foto credit: http://www.filagochepedala.it

giovedì 23 agosto 2012

IL RUGGITO DELLO SCARAFAGGIO

Molte, forse troppe persone non sanno fare i conti con la realtà quotidiana.
Si trincerano dietro false convinzioni, o forse speranze e pie velleità che a voler analizzare la realtà dei fatti si dimostrano tali, cioé proprio fantasie, speranze, velleità, ovvero qualcosa di immateriale che non ha nulla a che fare con la realtà.
 
E la realtà ci dice che in città la media chilometrica tenuta da un'automobile eccede di pochissimo quella che può essere raggiunta in bici (leggete un pò qui, quò e quà). Ciò sarebbe assai facile da verificare consultando più spesso il computerino delle auto che mostra la velocità media mantenuta, azzerandolo spesso. Capiterà così di scoprire che in città è difficilissimo che si superino i 20 km/h di media. La velocità di una bicicletta, appunto.
 
Questo fatto, quando si concretizza nella pratica, manda letteralmente in bestia i già frustrati schiavi del volante, quelli che, quando si trovano ad affrontare ad esempio una sequenza di semafori in città affiancati da una bicicletta, scoprono con profondo disappunto che nonostante ogni loro bruciante sgasata l'auto viene puntualmente ripresa dalla bicicletta al semaforo successivo.

E qui viene la storia.

Ore 07.30 del mattino, in agosto. Città deserta.
Due semafori in serie, io procedo lentamente e mi fermo al primo, ne approfitto per bere, guardarmi attorno, confrontare l'orario sul vicino campanile che mi fa da contatempo, godermi il fresco del mattino anche se c'é già afa.
Una FIAT 600 sopraggiunge alle spalle (quindi neppure una Maserati, ma un'utilitaria) per fermarsi al primo semaforo rosso. Come scatta il verde il guidatore, non reputando la mia ripartenza sufficientemente lesta, parte a razzo e mi scarta sulla sinistra superandomi. Siamo le uniche due forme di vita animale in centinaia di metri.
Il semaforo successivo (a 30 metri) non è sincronizzato col primo, e il Mario Andretti sull'utilitaria, esaurendo le proprie aspettative, è costretto inesorabilmente a fermarsi.
Lo affianco, volgo lo sguardo nella sua direzione, sorvolandolo noncurante e guardando al di sopra del suo tettuccio (lui è seduto, io no, e lo sovrasto di tutto il tronco).
Decido che il polpaccio è sufficientemente caldo e mi posso permettere uno scatto.
Il semaforo verde arriva di soppiatto, e la mia partenza in accelerata coglie di sorpresa lo sfigato al volante, che si avvede del verde quando ormai gli ho già dato trenta metri.
Un malcelato moto di stizza pervade il meschino, che reagisce come se avesse una Lamborghini sotto il culo e impicca il motore per superarmi, ormai quasi cento metri dopo.
Ma è tardi, gli sparisco di sotto infilando una ciclabile parallela, e come conseguenza noto il poveretto rilasciare visibilmente l'acceleratore, improvvisamente alleggerito dell'ansia da competizione.

Auguro a costui ogni migliore cosa: la sua esistenza deve essere davvero triste se per essere felice deve ricorrere all'acceleratore dell'auto.

venerdì 3 agosto 2012

CORSICATOUR 2012 - PRIME IMPRESSIONI

Dopo 12 giorni e circa 713 km percorsi, ai primi di Luglio è terminato il CorsicaTour 2012.
Non c'é che dire, è stata un'esperienza - a voler usare sottili eufemismi - unica, estremamente impegnativa, e (per chi fosse interessato a viverla personalmente) da non sottovalutare affatto.
Mi spiego meglio.

E' stata un'esperienza unica, perché ho attraversato climi e ambientazioni differenti, dalla spiaggia assolata cosparsa di bagnanti alle vallate solitarie tappezzate di macchia mediterranea, dal lago alpino circondato di pini larici scossi dal vento al valico di montagna spoglio, roccioso e lunare.
Un'esperienza unica perché - essendo territorio comunque Francese, e i transalpini si sa in quale altissima considerazione tengano la bicicletta -  sono stato inaspettatamente oggetto di animose incitazioni, attestazioni di stima e incoraggiamento e incuriosita attenzione da parte delle persone incontrate nelle soste, nelle tappe o anche sul ciglio della strada. Addirittura, in più di un caso (uno dei quali sono riuscito a documentare in video), applausi al mio passaggio. Ricordo un attempato signore su una spider che incrociandomi si leva il cappello al mio indirizzo. Sul valico del Col di Sorba un tizio di passaggio mi ha dato del folle ("fou" in francese). A Bonifacio due ragazzi mi hanno avvicinato, e dalle loro frasi ho capito che volevano sapere del mio viaggio, ma la barriera linguistica è stata per loro insormontabile. All'ufficio postale di Quenza, per i motivi accennati più sotto, si sono mobilitati in quattro per darmi una mano, senza mai smettere di domandarmi dettagli e commentare. Questo spontaneo affetto - non saprei come sintetizzarlo altrimenti - ha costituito la vera iniezione di carburante in più che mi ha consentito di affrontare tappe impegnative dalla prima all'ultima pedalata, al grido "Bon courage!!!!".
Un'esperienza unica anche perché ho assistito quotidianamente a come si guida un'auto avendo radicata bene in mente la consapevolezza e l'educazione di considerare la strada un luogo collettivo, a disposizione di tutti e non solamente delle auto. Ho constatato tale generalizzata cultura della convivenza stradale trasparire in modo brillante dal comportamento dei conducenti che incontravo, sempre civilmente rispettosi e pazienti. Nessuno che accelera bruscamente, che supera a un centimetro, che sgasa rombando, che si attacca al clacson per protestare, che ti si accosta col paraurti, che ti urla di toglierti di torno. Ho conosciuto come si guida con pazienza e rispetto, attendendo che la strada consenta di sorpassare un ciclista in sicurezza, seguendo alla stessa velocità del ciclista, alla giusta distanza, fintantoché le condizioni di sicurezza non si presentano (a volte qualche centinaio di metri).

E' stata anche un'esperienza estremamente impegnativa, perché la prospettiva prevalente in Corsica è la pendenza. Ho trovato questo concetto riassunto in una asciutta definizione cesellata a mio beneficio dall'anziano titolare del campeggio di Zonza, come augurio alla mia partenza: "Qui di discese ce ne sono poche". La tenuta mentale nell'affrontare un territorio che offre salite a ogni chilometro gioca un ruolo decisivo. Non ti è consentito il minimo rilassamento neppure dopo essere arrivato alla tappa del giorno (tutti i campeggi raggiunti a fine giornata hanno infatti le piazzole terrazzate, sopraelevate rispetto alla reception, che quindi devono essere raggiunte salendo talvolta in modo assai ripido). Un fattore sfavorevole in tal senso è stata l'assenza di indicazioni precise sulla mappa cartacea da me impiegata (non ne dico la marca, l'ho detta in un precedente post): la descrizione delle strade era palesemente orientata verso un'utenza stradale per la quale la pendenza non è un fattore decisivo. Non vi era alcuna indicazione di pendenza e tutto era piatto, "automobilistico", ovvero bidimensionale, e addirittura senza indicare i punti più alti, i valichi, gli scollinamenti. Ho quindi affrontato i dislivelli senza alcuna "preparazione", così come venivano. A volte era anche bello, ma a volte anche no.

E' un'esperienza da non sottovalutare affatto, perché la misura del divertimento che ti viene concesso è direttamente proporzionale al grado di allenamento con cui affronti un viaggio del genere. Prendere e partire con tanto cuore ma con poco polpaccio rischia seriamente di trasformarsi in un supplizio, considerato che mediamente in una tappa viene macinata una salita cumulata attorno ai 1.000 metri, tutti i giorni, per dieci giorni. Nel mio personale caso il pendolarismo di 45 km due/tre volte alla settimana nell'ultimo anno e mezzo ha pagato con gli interessi, e mi sono divertito.
Sono riuscito tutto sommato a rispettare il programma di massima pensato prima di cominciare, ad eccezione di un giorno non previsto di sosta e recupero a Bonifacio, che si è rivelato fondamentale per il completamento del viaggio. Infatti i primi cinque giorni - e quindi i primi 4-500 km - li ho fatti di filato. Confesso  che, giungendo a Bonifacio, pertanto a metà strada nel mio percorso ideale, ho lungamente meditato di terminare lì il viaggio, dirottando l'indomani per Olbia e imbarcarmi per Genova, e rimandare l'appuntamento con le montagne del centro ad un altro momento. Dopo un giorno di ozio e mollezze ho sentito l'unicità di questo viaggio, che con tutta probabilità non farò mai più nella mia vita, e ho scelto di proseguire.
A proposito di equipaggiamento, quello che si è rivelato assolutamente determinante è stato l'impiego dei pedali a scatto e dello zainetto per l'acqua. In salita i pedali sono stati decisivi, così come la riserva idrica sulla schiena. Autentiche chiavi del successo del viaggio. Punto.
Il settimo giorno di viaggio, quando ho cominciato a salire VERAMENTE verso le montagne centrali, transitando a Quenza ho deciso di alleggerirmi e mi sono auto-spedito un pacco a casa con gli oggetti allo stesso tempo meno usati e più pesanti. L'espediente ha sortito subito i propri effetti positivi, ma a causa di disguidi postali assortiti (non mi hanno trovato a casa, e il pacco è tornato in Corsica) sono riuscito a tornarne in possesso dopo più di un mese dal rientro....
Grossi imprevisti non ce ne sono stati, ma a differenza dei viaggi precedenti stavolta ho avuto qualche noia meccanica alla bici e all'equipaggiamento. Proprio quando le salite hanno cominciato a richiederne l'utilizzo, mi sono accorto che la corona più piccola della guarnitura non ingranava nonostante il deragliatore scattasse regolarmente. Ciò mi ha costretto a penose - e a volte anche rischiose - fermate in pendenza a bordo strada per posizionare manualmente la catena e poter quindi affrontare la salita, con grave pregiudizio della pulizia delle mie mani e dei guantini. Nonostante un grossolano tentativo di sistemazione durante l'ozioso giorno di sosta a Bonifacio, non sono riuscito a risolvere il problema e me lo sono dovuto tenere fino alla fine. Inoltre ho nuovamente rotto il gancio della borsa anteriore sinistra (quello che si era rotto arrivando a Iglesias nella TranSardinia 2010), ma in questo caso il cacciavite del coltellino svizzero e poche decine di centimetri di funicella hanno egregiamente risolto la situazione, con dieci minuti di tempo mentre sostavo in spiaggia, all'ombra di un pino. Gli ultimi tre giorni ho anche squarciato la suola della scarpa destra, con grave preoccupazione per il rischio di non poter più utilizzare i pedali a scatto (e quelli normali che mi ero portato dietro li avevo già rispediti a casa col pacco).
L'alimentazione non è stata un problema ma neppure particolarmente variata, fondamentalmente basata su pane, nutella e yogurt a colazione, frutta per gli spuntini, tramezzini con salumi e sottilette per pranzo, buste di riso pronto o pasta al sugo pronto per cena. Quello che invece mi ha impressionato è stato che, ad un certo punto del viaggio, ho percepito di essere diventato una macchina per la trasformazione del moto da "alternativo masticante" a moto "rotativo pedalante". Ciò che mi ha maggiormente colpito sono le quantità di cibo consumato, grossolanamente conteggiate a fine viaggio:
  • 3 kg di pane a fette e 3 baguettes
  • 1.2 kg di salumi
  • 2 kg di banane
  • 2 kg di frutta tra pesche, albicocche e prugne
  • 3 kg di yogurt alla frutta
  • un volume tra i 35 e i 40 lt di acqua, tra quella in bottiglia e quella raccolta alle fontane lungo il percorso
... più un certo numero di snacks estemporanei, come i gelati o la fettona monumentale di torta alle castagne con panna montata mangiata in località L'Ospedale, per festeggiare il primo giorno di salita in montagna.
Nonostante la mia propensione a considerare poco rilevante il clima, che considero molto spesso una delle tante variabili in gioco in un viaggio in bici, riconosco che in alcuni frangenti ho desiderato una temperatura più clemente, specialmente nei giorni iniziali di salita (sotto l'anticiclone africano "Scipione") e negli ultimi due. Ma, a parte ciò, il vento non ha mai fatto mancare il proprio aiuto, fortunatamente anche in termini di direzione di provenienza. Per il resto, l'intera permanenza in montagna, protrattasi per tre giorni, è stata climaticamente paradisiaca.

Ho incontrato tanti, ma proprio tanti, cicloviaggiatori come me da soli, in coppia, con bimbi piccoli, in famiglia, in gruppo. Ricordo la coppia di ragazzi francesi che mi ha illuminato il cammino rivelandomi che la salita al Deserto delle Agriates era quasi finita. Ricordo la coppia di giovani sposini (francesi anche loro), con una bimba piccolissima alloggiata nel trailer trainato dalla mamma, incontrati al campeggio ad Ajaccio in partenza verso nord con le loro pieghevoli. Ricordo la chiacchierata con la coppia canadese con le recumbent, in salita sui boscosi tornanti verso i calanchi di Piana. Ricordo il cicloviaggiatore solitario con cui ho condiviso i primi settanta chilometri, il giorno dello sbarco nonappena cominciata la salita da Bastia in direzione di Calvi. Sorrisi, saluti, scambi di consigli e suggerimenti sui percorsi hanno fatto da degnissima cornice ai momenti di incontro.
In attesa di scrivere il diario di viaggio, riassumo il tutto per sommi capi:
  • durata del viaggio: 12 giorni, di cui 11 pedalati interamente, dal 18 al 29.06.2012;
  • distanza totale percorsa: 713 km
  • tappe: imbarco a Savona per Bastia (18.06), Bastia-Calvi (19.06), Calvi-Porto (20.06), Porto-Ajaccio (21.06), Ajaccio-Propriano (22.06), Propriano-Bonifacio (23.06), Zonza (25.06), Col de Verde (26.06), Corte (27.06), Furiani (28.06), e di nuovo a Bastia per l'imbarco diurno (29.06);
  • tipologia di carico e pesi: borse posteriori in tre pezzi (17,5 kg), due borse anteriori (7 kg), bauletto al manubrio (3 kg circa);
  • distanza media per tappa: circa 65 km;
  • salita totale cumulata: circa 9200 metri;
  • salita media per tappa: circa 830 metri;
  • tempo totale pedalato: 44 ore 35 minuti;
  • tempo medio per tappa: poco più di 4 ore.
Le foto si trovano QUI.

Il tracciato completo del viaggio - in formato .gpx - si trova invece QUI.