mercoledì 20 febbraio 2013

LA BANALITA' DEL MALE (E TANTE SCUSE AD HANNAH ARENDT)

Siamo dei sempliciotti. Tutti, indistintamente.

Viviamo in un mondo mediatico in cui la rappresentazione del male è caricaturale, grottesca, con personaggi ben caratterizzati e riconoscibili, da commedia dell'arte. Il cattivo è brutto, scomposto, socialmente repellente, dai modi gratuitamente sgarbati oppure futilmente crudele, possibilmente anche puzzolente.

A nessuno può sfuggire il fatto che si tratti di una semplificazione, dello stesso tipo che ha stimolato Daniele Luttazzi a coniare la geniale battuta "La presente edizione del telegiornale va in onda in forma ridotta per venire incontro alle vostre facoltà mentali". E chi non se ne fosse accorto, vuol dire che beneficia delle edizioni ridotte dei telegiornali.

Ora, questa semplificazione ha il preciso scopo di porre il lettore, teleutente, spettatore, audience o che dir si voglia dalla parte del "bene" raccontato dall'opera (libro, film, spettacolo teatrale, etc.), onde indurre immedesimazione e, al termine del libro, spettacolo etc., vivere con sollievo il prevalere del "bene" sul "male".

La musica cambia, e di parecchio, quando invece ci caliamo in quel male perpetrato per caso, per distrazione, per ignavia, per inazione, per pigrizia. Il male che fai senza volerlo, e che una volta fatto non puoi tornare indietro, l'hai fatto tu, proprio tu, sei stato tu, è colpa tua, che magari ieri sera hai letto l'ultimo capitolo del tuo libro preferito in cui il cattivo soccombeva, e sei andato a dormire sollevato.

Il male che a ciascuno di noi può capitare di fare, alla guida di un'auto.

Il male che capita di subire in bicicletta, una mattina di fine febbraio, in provincia di Milano, ad una rotonda, alle prime luci dell'alba.

Volkswagen Polo nera, arriva alla rotonda dalla mia destra con una manciata di secondi di ritardo, io sto già attraversando diretto davanti a me. Non si ferma, neppure per un secondo, e procede a velocità costante avvicinandosi inesorabilmente.
E' un attimo.
La seguo con la coda dell'occhio e poi voltando la testa a destra mentre le sfilo davanti, adesso la distanza è di pochi centimetri dal suo spigolo anteriore sinistro e non accenna a rallentare. Comincio istintivamente a mollare la mano sinistra dal manubrio per attutire la caduta che intuisco imminente, la distanza è al massimo di dieci centimetri.

Ho già avuto occasione di descrivere in passato il mio equipaggiamento in termini di luci, catarifrangenti, cazzi e mazzi luminosi attivi e passivi. E ho già concluso che è più difficile del normale NON vedermi mentre pedalo per strada. Però esiste un rischio residuo, le cui cause stanno dalla parte degli automobilisti. Ad esempio un maledettissimo montante del parabrezza, che come in questo caso credo mi abbia nascosto parzialmente alla vista.

L'auto inchioda, peraltro rischiando di farsi tamponare da quella che segue e da un'altra dietro di me. Mi allontano ed esco dalla rotonda, ma solo per pochi metri. Mi giro all'indietro un paio di volte, la macchina è ancora ferma lì. Inchiodata.

E no, cazzo, stavolta non voglio farmi scivolare la cosa addosso. Lentamente, cercando di governare l'adrenalina, inverto il cammino e rientro nella rotonda. L'auto intanto ha ripreso a muoversi, pianissimo, e vedendomi tornare mette la freccia e accosta più avanti.


Mi affianco che il finestrino si abbassa. E' una signora, più vicina ai cinquanta che ai quaranta, infagottata in un cappottone beige, dall'aspetto mite, una persona normale. E' da sola. E' visibilmente scossa.

Balbetta un "Ma andavi come una freccia", due volte, in tono implorante.

Io sono sconvolto, sto guardando dritto in faccia colei che stava per ammazzarmi solo mezzo minuto prima.

In piena confusione replico in apnea: "Signora, ne hanno ammazzato un paio solo ieri, in questa stessa zona........... La prego, stia attenta quando guida......... Ci è mancato tanto così......"

Distoglie lo sguardo e lo punta davanti a sé. Comincia a piangere.

Non riesco a fare altro che augurarle buona giornata, e lasciarla lì con le sue lacrime, sola, in mezzo a una rotonda in un crepuscolo di provincia. Meglio le sue lacrime di spavento, che quelle di mia moglie per qualcosa di più grave.

Ecco la banalità del male: quello che, alla guida di un'auto, è sin troppo semplice causare anche se non lo vuoi.