giovedì 27 giugno 2013

SELLARONDA EXPRESS

Siamo in quattro, ma non ci conosciamo tra noi.

Siamo in quattro, i due avanti e io con un altro aggiuntosi dopo.

Infiliamo nel più assoluto silenzio le curve e controcurve strette, il sibilo dei freni unica nota udibile, concentrati per gestire le traiettorie delle nostre bici sparate in discesa a quasi  settanta all'ora.

Nessuno parla, le giacchette antivento dai colori improbabili frusciano schiaffeggiate dall'aria che si fa via via più calda al diminuire della quota, a volte ci disponiamo in fila, a volte a coppie affiancate, a diamante, a quadrato. Un trenino, un nucleo primordiale a geometria variabile, una molecola a legame debole che si sfilaccia e si ricompatta, ma senza disgregarsi.

Ci siamo aggregati per caso, filando giù dai tornanti boscosi che dal Passo Sella riportano a Canazei, da dove sono partito stamattina per partecipare al Sellaronda Bike Day.

Dovevo esserci a tutti i costi, erano mesi che sognavo di essere qui, ventimila e più ciclisti che percorrono l'anello che abbraccia il gruppo del Sellaronda tra Trentino, Veneto e Sudtirolo. E allora mi sono organizzato per passare meno di ventiquattro ore quassù, nottata in campeggio bagnata fradicia, fredda e in gran parte insonne (devo cambiare tenda, la mia sta ormai soffrendo l'usura dei viaggi passati).

Ma la domenica mattina, al risveglio alle sei, ci pensa il massiccio della Marmolada a darmi il buongiorno, stagliandosi ammantato di neve esattamente di fronte alla mia tenda, come apro il tendalino.


Il tepore faticosamente accumulato durante la notte esala in un istante, e non mi resta che muovermi e darmi da fare per mantenermi caldo.

Colazione da lottatore di sumo, un due tre fette di pane generosamente spalmate di Nutella  fanno compagnia allo yogurt e al tazzone di mezzo litro di caffélatte col miele bello caldo.

Non mi rado, sto coltivando una sottospecie di rito scaramantico che se mi lascio la barba alla domenica mattina pedalo meglio (ma sarò scemo?).

Tiro fuori la bici dal bagagliaio, rimonto la ruota anteriore e dò un'ultima occhiata ai freni (serviranno parecchio, oggi!).


Nonostante il calendario cerchi di convincermi che siamo a fine Giugno, non mi lascio ingannare e mi vesto in modo ibrido-modulare sul pesantino andante con brio. Il che non spiegherebbe nulla se non precisassi di essermi vestito "a cipolla", con una maglia da ciclismo a maniche corte e pantaloncini da ciclismo corti, ma arricchiti da una felpa in pile , dalla giacca antivento, zuccotto e collare in pile. Ma la vera new entry sono i coprigambe e le mezze maniche, che all'occorrenza si possono sfilare via (i primi), oppure ripiegare sui polsi (le seconde).

Mentre sono alle ultime battute di preparazione mi accorgo che quasi tutto il campeggio si sta attivando con lo stesso proposito: cominciano infatti a sfilare tanti ospiti a due ruote, equipaggiati alla bisogna.

Esco quindi e mi tuffo nel fiume di appassionati pedalatori, non c'è bisogno neppure di intuire quale sia la direzione da prendere, è sufficiente seguire gli altri.

Dopo neppure duecento metri, si comincia a salire. L'andatura rallenta e fa si che la densità di ciclisti aumenti notevolmente, e mi ritrovo a pedalare a trenta centimetri da perfetti sconosciuti, a respirarne il sudore, a percepirne il respiro. L'attenzione adesso è concentrata a evitare di incrociare il manubrio con qualcun altro, a non urtare le ruote di chi precede, a dare spazio a chi sopraggiunge da tergo con andatura più sostenuta, annunciandosi con richiami che giungono secchi nel silenzio della mattina "Oh!", "Occhio!",  "Attenzione in mezzo!". Dopo pochi tornanti siamo già immersi nelle pendici silvestri, fitte di alberi, che issano verso il bivio tra il Passo Sella e il primo degli impegni, la prima meta, la prima sfida, il primo timore reverenziale: il Passo Pordoi a 2241 metri.


In questo primo tratto, tutti freschi ed entusiasti, le chiacchiere si sprecano, e allora è tutto un vociare tra i gruppi di amatori, riconoscibili dalla stessa maglietta, e chi ha fiato lo usa  anche per parlare, forse per esorcizzare la salita a uno dei passi-monumento. Assisto al variopinto spettacolo di multicolori schiene chine sui manubri, sfottò e chiacchiere in una quantità notevole di inflessioni diverse, tutto il Paese è rappresentato qui, lungo queste strade. Assisto agli amorevoli consigli dell'uomo verso la sua donna su come affrontare al meglio le traiettorie in salita sui tornanti (c'è una precisissima tecnica per farlo, nulla è lasciato al caso in queste condizioni). Mi accorgo - da quelli che cominciano quasi subito a fermarsi in corrispondenza dei tornanti per riprendere fiato - che lungo questi percorsi, sulle Dolomiti, a queste quote, ogni pedalata data male la paghi a carissimo prezzo, e con gli interessi. Mi concentro quindi ancora di più per impostare una salita regolare, senza strappi né fuorisella inutili.
Non mi interessa dare spettacolo, voglio solo divertirmi.

Pedalare in un gruppo stretto comporta soprattutto il percepire le persone in modo estremamente ravvicinato, magari se non in senso spirituale di sicuro in quello spaziale, e quindi fisiologico. I ciclisti infatti sono noti per essere gente piuttosto rude, adusi a mantenere la propria efficienza fisica anche stando sulla strada mentre pedalano, e senza smettere di pedalare: nessuna sorpresa quindi se c'è chi scaracchia, sputa e si libera il naso en plein air, con grave nocumento per la serenità di chi segue in scia. Uno splendido campionario umano. A me tocca un tizio che a stargli dietro prendo più vento che a stargli davanti (*): infilo infatti una sequenza di scorregge appena attutite dall'imbottitura del pantaloncino, preannunciate dal sollevamento del deretano dal sellino. Alla terza schioppettata decido di averne abbastanza, e mi accodo altrove. Credevo di essere ruvido, un pò come tutti i ciclisti: beh, ho scoperto di essere in ottima compagnia.


La salita al Passo Pordoi da Canazei

L'ascesa è scandita dai cartelli che numerano i tornanti, completi di indicazione della quota altimetrica: oltre i 1.800 metri la foresta si dirada e la visuale si apre sulla maestosità delle cime circostanti. Davanti a noi le Torri del Sella si ergono verticali nell'azzurro più azzurro da un bel pezzo in qua, più a destra il Sass Pordoi, a sinistra in lontananza il Sassolungo è già incappucciato di nubi, intrappolate nel suo anfiteatro rivolto a nordovest.




Celebro intimamente il superamento dei 2.000 mt. di quota, sto arrivando più in alto di quanto sia mai giunto in bici da una quindicina d'anni in qua (il mio record è 2.750 metri nella Conca di By, in Val d'Aosta nell'Ottobre 1997, ma non ero allenato, ero completamente in solitaria, sono arrivato lassù del tutto ubriaco di fatica e ipossìa e ho rischiato di pagare carissimo la mia sventatezza, rischiando molto, davvero troppo).

L'arrivo al Pordoi, due ore per ottocento metri di dislivello in dodici chilometri, è preceduto da un vociare in lontananza. Un tappeto di centinaia di ciclisti occupano l'assolato piazzale  della funivia, il cartello marrone indicatore di località è preso d'assalto per la foto ricordo.


Io mi volto indietro, ancora incredulo di essere lì: sotto di me un serpente multicolore si snoda in salita sino a perdita d'occhio in basso. Adesso ho la percezione di quanti siamo, soprattutto se penso che sto osservando solo i partecipanti provenienti da Canazei: le altre località da dove partire, nel circondario del Sella (Arabba, Corvara, Selva Gardena) stanno vivendo in questo stesso istante la medesima scena del fiume di pedalatori che sciàmano, in senso antiorario, per le strade dolomitiche chiuse al traffico.

Sfrutto la pausa per una banana e per bere, mi preparo per ripartire: felpa di pile e giacca antivento per sopportare la discesa verso Arabba, solo da poco illuminata dal sole diretto e pertanto ancora fredda (la recente esperienza mi scotta - ma sarebbe meglio dire mi ghiaccia - ancora).

Attraverso la calca badando a quelli che sopraggiungono da dietro salendo, e comincio a scendere. E' sufficiente la prima rampa e prima del primo tornante raggiungo già i settanta all'ora. Forse è meglio metterci un pizzico di attenzione supplementare. Doso bene i freni per ottenere la migliore decelerazione senza provocare fischi o, peggio, il blocco delle ruote. Occhi dappertutto per evitare i missili che superano a sinistra accucciati a uovo (io sono a sessanta, loro a quanto c§220 stanno andando?). Il circondario è tutto a pascolo, mucche serafiche si fanno i fatti loro sino a bordo strada approfittando dell'erbetta fresca, per nulla infastidite dalle sibilanti dueruote. Il fondo stradale è messo peggio che nella salita (è infatti visibile il confine regionale, dopo il Pordoi siamo entrati in Veneto, con tutto quello che ne deriva in termini di stanziamenti), e le traiettorie devono essere più accurate per non perdere aderenza nelle crepe.


Discesa dal Pordoi ad Arabba



Ad Arabba veniamo accolti dal punto di partenza della Maratona delle Dolomiti, con musica, chioschi di panini e atmosfera da fiera paesana. Non mi fermo, mi spoglio degli abiti caldi e così alleggerito dirigo subito verso la nuova salita Passo Campolongo, seconda prova di oggi.


La salita da Arabba a Passo Campolongo


Che a dire il vero arriva quasi subito, il dislivello da superare è di soli duecento metri e in poco tempo è fatta, ferma restando la foto commemorativa.


La discesa dal Passo Campolongo a Corvara in Badia


Mi rivesto nuovamente. Anche lungo la discesa verso Corvara in Badia le velocità sono interessanti, e se possibile le condizioni della strada peggiorano ulteriormente. Passo su una buca nell'asfalto ai 67 all'ora, incassando una botta che spezza il supporto del GPS, che vola letteralmente per aria, trattenuto dal laccio che ho previdentemente avvolto al manubrio (mi è già successo in passato di giocarmi il supporto, solo che allora il GPS volò per strada e solo la fortuna volle che per un solo istante non passassero autoveicoli... Ah, quanto insegna l'esperienza...).


A Corvara, in un comodo piazzale di parcheggio, sosto per pranzare e per riscaldarmi un pò. Mi guardo attorno e penso che i ciclisti sono proprio strani, con la loro propensione ad annusarsi guardandosi le bici, osservandone i dettagli, scrutando l'un l'altro accessori e abbigliamento. C'è chi chiama gli amici, sparpagliati da qualche parte sul percorso, ed è tutto un rincorrersi telefonico di "Dove siete?", "Quale avete fatto?", "A che punto state?".

Mi chiedo quale bizzarra visione si abbia del coloratissimo fiume di ciclisti se osservati dall'ovovia che si stacca poco lontano verso la cima del Gruppo Sella. Oppure quanto darei  per dare un'occhiata dall'alto con l'elicottero che di tanto in tanto tocca e riparte dalla vicina elisuperficie, portando i turisti a fare foto.

Finita la pausa riparto, per la concomitante Maratona delle Dolomiti è stata allestita una festa con musica dal vivo, e c'è una presentatrice appollaiata su una bassa staccionata che saluta i ciclisti che passano. Siccome in Val Badia a certe cose ci tengono, hanno pure allestito un ciclopico arco gonfiabile con un'altrettanto gigantesca bicicletta celebrativa dell'evento.





Salita al Passo Gardena


La salita al Passo Gardena, che sancisce lo sconfinamento in Sudtirolo, si fa sentire subito. Sono a metà strada, e il tracciato si dimostra impegnativo non tanto per la  pendenza quanto per la sua lunghezza. La dimostrazione sta nel fatto che adesso sono tutti in silenzio, le chiacchiere azzerate, chini e concentrati sui manubri. Alle nostre spalle si apre uno scenario incantevole sulla Val Badia, sempre più in basso, da cui risale la corrente lenta e continua di ciclisti lungo la strada curvilinea.





Adesso il cielo è oscurato di nubi, la temperatura scende. Siamo sul versante in ombra del Gruppo Sella, alla nostra sinistra, che mostra tutto un altro aspetto: gole, rientranze, pareti frastagliate, guglie rosacee alla sommità delle quali si scorgono i camminamenti e le passatoie delle ferrate in quota. Una cascata sorge altissima da un nevaio e precipita per centinaia di metri sulle sottostanti pietraie.

Fedele ad un fenomeno già sperimentato durante i miei viaggi in bici, la mia pedalata rende meglio nel pomeriggio che al mattino: riesco quindi ad imprimere un buon ritmo che mi consente di sopravanzare addirittura molta gente, e di accodarmi a un duo di stradisti dall'aspetto assai tonico e allenato.

All'arrivo sul Passo Gardena la folla è così tanta che manca lo spazio in strada. Dopo un paio di foto e la nuova vestizione non mi trattengo molto, anche perché sto continuamente scrutando il cielo e temo l'arrivo della pioggia (che a 2200 metri di quota ha l'antipatica tendenza  a tramutarsi in NEVE).









Discesa dal Gardena


Mi lancio quindi per la terza discesa del giorno, quasi rettilinea perchè corre sul lungo fianco nordoccidentale del Sella, e dominata davanti a noi dal Sassolungo incappucciato di nubi. E' un tratto facile e veloce, con l'unica caratteristica di scendere poco di quota e quindi di mantenersi a temperature piuttosto basse. Soffro infatti un pò il freddo e cerco di coprirmi meglio che posso.

Al bivio per Selva Gardena mi districo tra chi sosta per spogliarsi prima della nuova ascesa al Passo Sella, e vado a compiere la stessa operazione un pò più avanti.


Salita al Passo Sella


Anche questa salita è un pò lunghetta, ma credo sia un effetto della stanchezza che comincia a farsi sentire. Scende qualche gocciolina, ma nulla di grave. Intanto il serpentone dei pedalatori incalliti - per motivi che non colgo - si sta diradando, e siamo in pochi per strada adesso. Capisco l'antifona quando trovo un bailamme al Passo Sella: si prolungano le soste, e c'è una folla esagerata al rifugio. Solito assalto al cartello per la foto ricordo, gruppi che festeggiano l'ultima salita, battutacce da caserma e schiamazzi molesti.  Un gruppetto di rocciatori di ritorno da un'arrampicata osservano con malcelato disappunto la violazione delle solitamente silenti e rarefatte lande d'alta quota. O forse è solo invidia.




Mi riavvio ben cosciente che non è ancora finita, il fiume di gente si è scremato notevolmente, e adesso sto sfrecciando in discesa lungo le pendici boscose ai piedi del Sella, con i miei tre sconosciuti compagni di strada e nessun altro. Stiamo per uscire dalla riserva indiana creata appositamente per noi oggi, con la chiusura al traffico automobilistico dell'anello che gira attorno al Sella.


Discesa dal Passo Sella e ritorno a Canazei













Rientro in paese, sono soddisfattissimo dell'esperienza. varcando il portale di ingresso al campeggio non trattengo un sorriso, e blocco il GPS sui 61 km percorsi

Non sono stato neppure lì tanto a chiedermi se ce l'avrei fatta o meno.

Dovevo esserci, l'ho fatto e basta, mi sono divertito. Ho imparato a conoscermi meglio mettendomi alla prova.

Non sono da solo, e da oggi io sarò anche qua.







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(*): questa non è mia, è del Maestro Eterno e Assoluto Gianni Mura. Si adattava alla perfezione, e chi l'ha vissuto sa cosa significa.....








venerdì 14 giugno 2013

AUTOMAZIONE UMANA



Talora mi accade di avvertire lo scorrere del tempo come un ticchettìo di lancette. Solo che le "lancette" non sono le due bacchette roteanti sul quadrante di un orologio, assomigliano piuttosto ai personaggi dell'orologio della Cattedrale di Strasburgo, che compiono sempre lo stesso giro a beneficio dei turisti.

E' questa l'impressione che mi dà l'osservazione della strada ogni mattina, e lo scoprire le stesse persone compiere la stessa operazione nello stesso luogo allo stesso momento.
Non è come può essere, ad esempio, incontrare le stesse persone alla fermata del bus o del treno: lì c'è una costrizione temporale dettata da orari di arrivo e partenza.
In questo caso no, mi dà più l'impressione di assistere a un presepio meccanico, una casualità automatizzata che mi crea una punta di disagio se raffrontata al concetto di "libero arbitrio" e "casualità degli eventi".

In alcuni momenti di deja-vu particolarmente intenso mi sento come Bill Murray in "Ricomincio da capo", ma senza la marmotta.

La varietà di personaggi non manca di certo:
  • l'attempato signore canuto con occhiali sullo stradone appena parto, che osserva tutto con sguardo da gufo impagliato e ogni mattina è come se mi vedesse per la prima volta;
  • un altro signore canuto con occhiali però presso il bar di Civesio, mai visto effettivamente entrare o uscire, sta lì e basta;
  • la donna con gli occhiali e tutona da ginnastica che pascola il suo bruttissimo cane nero sul cavalcavia Parri verso San Giuliano;
  • l'arancionissimo furgone TRACO che passa alla stessa ora nello stesso tratto di strada che costeggia l'aeroporto di Linate, sempre doviziosamente sfiorandomi con la fiancata ai novanta all'ora;
  • il signore dalle fattezze orientali che accende il motore della sua Opel Corsa nera parcheggiata sempre nello stesso posto e nello stesso modo fantasioso (recentemente deve essersi accorto anche lui della comicità della cosa, e come mi vede si mette a ridere);
  • l'ignaro benefattore con scooter rumorosissimo a 25 all'ora, nella cui scia mi infilo e mi lascio risucchiare per centinaia di metri tra la rotonda di San Giuliano e quella di Metanopoli (poi io giro a destra, lui va dritto e il trucco finisce);
  • lo stesso gregge di caprette nane (giuro, ho le foto) che bruca sull'argine del Lambro guardate a vista dal loro giovane padrone;
  • il signore palesemente sudamericano che carica il bagagliaio della sua scassatissima monovolume verde metallizzato, a Ponte Lambro, nella cui nube di motore acceso mi infilo regolarmente, per la gioia dei miei alveoli polmonari.
E poi c'è lui, il Baffo. Il mio preferito.

Il Baffo è un ignoto ciclista di mezza età, se non molto oltre, dai connotati spigolosi e affilati, di una magrezza inquietante come tutti i ciclisti, capellone e totalmente canuto sotto il casco, e dall'apparente statura di due metri.
Sfoggia una paio di mustacchi di eguale tinta e di proporzioni tali da  far fallire qualsiasi tentativo di scatto o accelerazione, talmente sono ingombranti e resistenti all'aria.
Il Baffo lo incontro in senso inverso, al pomeriggio, quasi sempre nella zona di Sesto Ultieriano-Civesio, e pertanto anche lui alle prese con autocarri e furgoni che gli sfrecciano a dieci centimetri.
Pedala serafico con un movimento lungo e rotondo delle sue lunghe leve, le spalle ossute ripiegate e storte sul manubrio da strada in presa alta alle manopole, il suo equipaggiamento mediamente adeguato, no occhiali né guantini.
Il suo pacioso sguardo fisso avanti (non ha mai accennato minimamente ad accorgersi di me) mi comunica eleganza, di quel tipo di eleganza strafottente di chi sa di avere raggiunto i suoi traguardi e di starsi godendo le meritate ferie di fine vita. Quell'eleganza menefreghista di chi non ha neppure bisogno di sembrare (figurarsi esserlo) aggressivo.
Ecco, il Baffo è il mio preferito perchè scombussola quel clima di automazione umana creato dai gesti ripetitivi dei personaggi di prima.
Lui no, Lui fa sempre quella stessa cosa nello stesso momento e nello stesso luogo perché Lui il Suo Tempo lo governa, lo plasma. Lui la strada non la segue: è Lui che la crea al Suo passaggio, lasciandone poi beneficio agli altri.

Spero ogni volta di vederlo, e ogni volta che lo incrocio mi convinco con sollievo che c'è ancora vita, e speranza, su questo pianeta.

martedì 11 giugno 2013

L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 3: Il Film Della Tua Vita (in bianco-e-nero e senza sonoro)

Avete mai provato il senso della fine?

Quel momento, intendo, in cui ti rendi conto di esserti spinto fino ad un punto che basta un sussurro, uno squittìo, un nonnulla per fare la differenza tra un "rieccomi!" e un "beh, è stato bello finché e durato"?

Uno di quegli attimi che stabiliscono un "prima" e un "dopo", passato il quale ti rendi conto che ti è stata regalata una seconda possibilità per fare tesoro delle tue stronzate? Quell'istante le cui fila sono sorrette da qualcosa d'altro che non sia la tua capacità di giudizio e il tuo consapevole discernimento, che ti accorgi che la tua vita, per una fugace manciata di secondi, ha fluttuato nella grigia nube della casualità (cioè, in misura maggiore del solito)?

In soldoni: avete mai incontrato il vostro limite?


Bene, a me è accaduto in una galleria, al buio, in discesa sparata, bagnato fino al midollo, in preda a violenti brividi per l'ipotermia, su una statale ligure trafficatissima e stretta, durante una bufera di pioggia scrosciante. E dopo avere VOLUTO essere lì, VOLENDO essere lì.

Era partito tutto come un'escursione più lunga del solito, di una sola giornata, una Randonnèe in solitaria.

L'obiettivo era varcare una catena di montagne e giungere al mare nel tardo pomeriggio. Poco più di un centinaio di chilometri in otto ore, una passeggiata.

Solo che gli elementi tramavano contro di me, e mi avevano organizzato una di quelle giornate inspiegabili a Giugno, con nuvoloni neri e gonfi che si stagliavano sopra le cime, e temperature molto basse per la stagione.

Complice una disattenzione che mi fa sbagliare strada dopo i primi cinquanta chilometri, mi dirigo senza saperlo verso tutt'altra méta, e quando me ne accorgo mi devo reinventare il viaggio così, su due piedi, in mezzo alle montagne e senza alcun appoggio né aiuto materiale. A metà del viaggio mi ritrovo quindi nella situazione in cui, per poterne venire fuori, l'unica cosa che posso fare è pedalare fino in fondo, senza possibilità di altra scelta, per i prossimi settanta chilometri.

Comincia a piovere, dapprima in modo gentile, e via via che si avvicina la vetta in modo sempre più cattivo. Siccome sto procedendo lungo una valle grossomodo orientata a sud, soffia un forte vento, intubato dall'orografia circostante come un asciugacapelli. La strada in pendenza convoglia verso di me rivoli di tre centimetri d'acqua da ogni direzione: in salita, in discesa o in curva. Le scarpe si riempiono, le calze si inzuppano, la pedalata si fa pesante tanto che a un certo punto mi fermo a verificare se magari non si sia impigliato qualcosa nelle ruote, tanto è lo sforzo che devo fare per avanzare. Poi pensandoci realizzo che mi sto appesantendo maledettamente a causa della pioggia, e che magari le forze al settantesimo chilometro non sono come quelle al ventesimo.

Comincio in quel momento a percepirla. L'ipotermia. All'inizio è subdola in modo caratteristico, appena accennata. Comincia con un intorpidimento alle punte dei piedi. In capo a mezz'ora non li sento più, e articolo la pedalata facendo leva direttamente su ginocchia e caviglie. Ma finché salgo, il mondo mi è amico: se si sale, almeno nel corpo sto caldo perché faccio attività muscolare. E allora sono le mani, che comincio a non sentire più. L'inizio della fine, in quelle condizioni, avviene quando la strada comincia a scendere verso il mare: scavallando il Passo in quota, bagnato, a pedale fermo e quindi a muscolo freddo. In capo a tre minuti netti comincio a tremare in modo incontrollabile, tutto il corpo sembra non rispondere e devo fare un supremo sforzo per tenere la bici dritta. Artiglio il manubrio come se mi dovesse reggere sull'orlo del precipizio, le auto lungo la Statale sfrecciano con un frastuono scrosciante sull'asfalto bagnato. Batto così violentemene i denti che, per paura di spezzarmeli, serro la mandibola fino a farmi male.

Senza smettere di tremare mi concentro sulla strada ma sento che i miei sensi si stanno ottundendo, la realtà circostante sta sfumando, le sensazioni ovattando.

E faccio conoscenza con il limite.

Sfrecciando ai cinquanta all'ora sul bagnato mi infilo in un tunnel. L'illuminazione non funziona. E' buio pesto.

Ho gli occhiali bagnati e appannati. Non vedo più niente, salvo un minuscolo indistinto puntino chiaro in lontananza: l'altro lato della galleria. Non distinguo più la strada, non so se sto procedendo a destra, al centro o contromano. L'unica cosa che avverto sono le asperità della strada, sassolini, buche. Non posso staccare le mani dal manubrio per levarmi gli occhiali, col tremore non riuscirei a tenere la bici dritta con una mano sola. Avevo freddo prima, adesso fa ancora più freddo. Trafiggo l'oscurità totale diretto verso il lumino sfocato laggiù, per un tempo indefinibile. Non sento più nulla, non provo più nulla. Non provo orrore, inquietudine, timore, né gioia. Sono sospeso nel mio torpore, riesco solo a percepire la gravità che mi attira verso il basso, in discesa, schiacciante ma amica. Per lunghi istanti mi sembra quasi di essere fermo, immobile, al buio, sguardo fisso in avanti verso il chiarore fioco.

L'uscita dal tunnel è uno sberlone. Secco, forte, vitale, salvifico. Dritto in faccia.
Grosse gocce di pioggia mi tempestano il viso, risvegliandomi dalla catalessi con una gragnuola quasi dolorosa. Riesco in un nanosecondo a staccare gli occhiali dal naso, la mia visuale si apre di un paio di centimetri verso l'avanti.

Devo riprendermi, mi fermo ad un bar. Sotto il diluvio scendo dalla bici, accosto e mi siedo su un muretto al coperto, capo chino, concentrandomi per non farmi prendere dal panico. Due ragazzotti dalla porta del bar mi osservano senza muovere un dito né profferir parola, la vacuità del loro sguardo come segno tangibile del loro contenuto mentale. Io non riesco a fermare il tremore, digrigno i denti e serro i pugni mentre muovo qualche passo ed entro nel bar.

I pochi e dinoccolati presenti ammutoliscono all'entrata del tremebondo e sgocciolante automa, in calzoncini corti e aderenti a scapito della giornata novembrina. A pensarci poi, devo essere sembrato Wile E. Coyote dopo aver ingoiato l'intero flacone di Earthquake Pills. Il barista più ributtante dell'universo sbigottisce ma mi assiste con solerzia quando chiedo un cappuccino e un thé caldo. Impietosito al di là di ogni mia richiesta si offre di tenermi la bici e di vendermi i biglietti del bus per scendere al mare, tornerò poi a riprenderla con comodo. Piuttosto ci crepo, sulla bici, penso. Gli astanti si godono l'inatteso diversivo domenicale del forestiero che tenta di bere il suo thé uno spruzzo per volta: nella tazza tremolante è in corso una tempesta forza nove. L'urgenza di ingerire un liquido caldo mi fa ustionare la bocca, la lingua, la gola, tutto. Esauriti cappuccino e thé mi cambio nel bagno del bar, indosso una maglia asciutta riservandomi il resto - calze e pantaloncini - per l'arrivo a destinazione. Prima di lasciarmi andare il barista, su sollecitazione di un entusiasta, mi fa dono di due giornali da infilare sotto la giacca: mi accorgo allora di stare rinverdendo, per la piccola attempata comunità locale, i fasti del ciclismo epico di sessant'anni fa. Manca solo Dino Buzzati, ma solo perché sono io che sono in ritardo. Mi accomiato in silenzio, ricambiato dai presenti.

Riprendo la strada, se possibile la pioggia è peggiorata ulteriormente. La strada è inondata e tortuosa, segnali di pericolo multiformi e variopinti si susseguono ammonitori lungo la discesa.

Nel volgere di qualche chilometro percepisco la temperatura aumentare sensibilmente, e quando entro in città e la strada spiana sto decisamente meglio, perché dovendo ricominciare a pedalare mi scaldo un pò.

Arrivo a destinazione che neanche ci credo, sono troppo instupidito e intontito per rendermene conto.

Ma per essermi cacciato in una situazione simile, stupido e tonto dovevo esserlo già da prima, e molto.





L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 2: Carezze


Immaginate di stare percorrendo la vostra usuale strada di ritorno dal lavoro, in bicicletta.

Essa strada passa da uno strettissimo marciapiede che percorrete abusivamente a puro scopo di sopravvivenza, in quanto è l'unica scappatoia da una trafficatissima provinciale foriera di lutti e tragedie.



Pensate di scoprire, con vostro sommo disappunto, che le abbondanti precipitazioni a carattere monsonico degli ultimi tempi abbiano fomentato l'indiscriminata crescita di un robusto fusto di cardo spinoso, che si protende strafottente per tre quarti del passaggio obbligato.

Immaginate ora di realizzare - con quel secondo di ritardo - che non ci passate, che siete ormai troppo veloci e che non eviterete il puntuto vegetale nonostante abbiate assunto una postura da bassorilievo egizio..

Provate ora a pensare quali ricamini possa lasciare sul vostro fianco sinistro un ramo recante aculei coriacei di mezzo centimetro di lunghezza, che vi sfrega ineluttabile artigliando vieppiù i vostri liscissimi indumenti in lycra e istoriandovi l'epidermide di caratteristiche striature orizzontali, varianti tra il lacero e il sanguinante.

Ecco, quando è successo a me, non molto tempo fa, ho rivalutato i pregi della desertificazione.

L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 1: Composti Azotati


Immaginate di uscire una mattina, di buon'ora, per andare a lavoro in bici come al solito.

Sta piovigginando, la strada è umidiccia ma non esattamente bagnata. La cosa non vi infastidisce più di tanto, avvezzi come siete ai capricci del tempo che avete lungamente sopportato durante tutto un lunghissimo inverno.

Come vostra abitudine non montate parafanghi sulla vostra amatissima bicicletta, che preferite nuda e filante come un tedoforo ateniese.

Pensate ora di imbattervi a un certo punto, in aperta campagna, in un fondo stradale cosparso di un limo dal bizzarro aspetto, di piombarci sopra in pieno e - complici le ruote che tirano su di tutto centrifugandolo verso di voi - di sporcarvici abbondantemente.

Immaginate adesso di trovare, settecento metri di fanghiglia più avanti, l'origine di cotanta mota: un trattore appena uscito da un campo, ove ha testé terminato di spandere concime liquido.

Vi avvedete solo in quel momento che la bruttura di cui siete intrisi dai capelli fino alle scarpe, che vi cola nelle caviglie, che vi oscura gli occhiali, che vi appiccica le ginocchia, ecco, quella NON E' FANGO.

Quando è successo a me volevo dare fuoco prima alla bici, poi ai vestiti, e infine al trattore compreso quel pirla che lo guidava, in una formidabile pira purificatrice.

Nel mio ufficio per tutta la giornata sembrava di stare in una stalla d'alpeggio.