Diciannove Dicembre, sette meno un quarto del mattino.
Il buio sembra di cristallo, limpido e ghiacciato. Ovunque tutt'attorno le superfici degli oggetti, la strada, il fogliame mandano riflessi cristallini.
Fendo la realtà circostante lasciando la mia scia monotraccia sulla brina, la ruota davanti fa da guida per quella dietro. Plurime imbottiture antifreddo diluiscono i suoni in fruscii.
Passo da una stradina di campagna, una delle ultime superstiti tra due cascinali ai margini di altrettanti convulsi centri abitati. Settecento metri di quiete a poca distanza da una striscia di caos antelucano asfaltato e rombante.
I fanali ritagliano dall'oscurità una sagoma snella e oblunga, verticale, immobile al margine della stradina. Non ho il tempo di chiedermi cosa sia, in un istante quel gioco di ombre si anima e prende il volo.
Mi ritrovo a pedalare affiancato a un airone cenerino, per svariate decine di metri.
Appaiati, il fluorescente ruotato e l'imponente pennuto, con indolenti movenze incastonate contro il primissimo chiarore di un'alba di zaffiro.
Lo osservo da un metro di distanza, avanzando alla stessa velocità. Nel becco serra stretto un pesce, gli ho disturbato la colazione (il pasto del mattino è il più importante di tutti).
Lentamente si solleva di quota, per seguire una curva della strada lo perdo.
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