Nella mia evoluzione ciclopendolaristica ho attraversato varie fasi.
I primordi, ad esempio, furono caratterizzati da un pendolarismo piuttosto spinto, 35 km a tratta per le carrettiere in provincia di Pavia, in un'ora e 15 al meglio delle mie facoltà.
Erano i tempi del glorioso Rampichino Cinelli, rimaneggiato in versione 2.0.
Quei tempi erano anche caratterizzati dal rifiuto di montare pedali automatici. Mi sentivo imbrigliato, costretto, impedito nella salvifica manovra di tirar fuori il piedino in caso di caduta, se qualcosa fosse andato storto. E tale ritrosìa non si è mitigata neppure acquistandone un paio su suggerimento di amici, provati una volta e subito accantonati in preda ad una sensazione di orrore claustrofobico.
Poco a poco, agendo su me stesso, ho superato il terrore e familiarizzato con gli aggeggini a scatto, coltivando anche la pratica ermetico-alchemica del montaggio delle placchette sotto le suole, il loro allineamento e centraggio in corrispondenza del punto giusto della pianta del piede.
Ho quindi iniziato ad usarli sistematicamente, scoprendo un mondo fatto di pedalate rotonde, di sincronicità col mezzo, padronanza della postura e, in buona sostanza, aumentando notevolmente la velocità media sul percorso.
Autunno di tre anni fa.
Tardo pomeriggio di fine Ottobre, dopo il ritorno all'ora solare era già buio. Una delle volte che i pedali automatici mi regalano una gradevole volata, ragion per cui serenamente gongolo ormai in vista di casa.
Come accenno a rallentare sul rettilineo principale l'aria freschina, interagendo con la maschera da cross la cui superficie interna contiene l'effluvio palustre del mio sudore non più ventilato dal moto in avanti, crea una immediata e inattesa cortina di condensa, che mi cela improvvisamente alla vista la strada, i marciapiedi circostanti, l'illuminazione urbana e i passanti.
Non mi accorgo, quindi, della decelerazione.
In un secondo sono fermo, immobile. La gravità terrestre reclama il proprio pegno, e mi sorprendo a chiedermi perché - nonostante io stia tenacemente comandando al piede di arrestare la caduta laterale a destra - l'inclinazione non accenni a fermarsi, vieppiù sommandosi ad un'improvvida sensazione di costrizione.
Mi adagio in orizzontale, sul mio fianco destro, in perfetto assetto ciclistico e ancora le mani sul manubrio.
Risulta difficile in un centro abitato, a quell'ora frequentato, perdersi lo spettacolo di un deficiente giallo fluorescente e luminoso lampeggiante che rovina al suolo in modo così geometrico, meccanico, quasi deliberato. Uno stunt-man.
E la scena infatti non sfugge ad un gruppetto di ragazzini che si sta avvicinando sul marciapiede, il più solerte dei quali, con tono serio ma senza scomporsi, si informa sul mio stato:
- "Bella Zio, tutto a posto?".
Sganciando i pedali con quei tre secondi di ritardo mi rimetto in piedi, farfuglio qualcosa, scosto gli occhialoni, per accorgermi di essere letteralmente a 50 metri da casa.
Acquisisco da quel momento l'attitudine a pensare sempre con CINQUE secondi di anticipo sugli eventi.
Nessun commento:
Posta un commento
Fammi sapere cosa ne pensi... Non hai bisogno di essere registrato!!!!