martedì 24 aprile 2012

DIARIO DI VIAGGIO TRANSARDINIA SOUTH COAST 2010




In un contesto diametralmente - o quasi - opposto a quello della TranSardinia West Coast 2009, in un assolato e mite pomeriggio di fine Maggio parto da casa diretto alla usuale stazione FS di Pavia,. Sull’esperienza del precedente viaggio ho preparato una nuova disposizione del carico sulla bici, attrezzandomi con il portapacchi anteriore Tubus Ergo e due nuove borse anteriori. Ho potenziato l’attrezzatura per la cucina, mi sono organizzato in modo del tutto indipendente in previsione di un viaggio che stimo sui 600 km. Parto con i consueti dubbi sull’eccesso di carico, sull’esattezza delle mie stime, sulle tappe calcolate (passerò da una zona della Sardegna mai vista prima, se non nelle animazioni di Google Earth). E’ trascorso un anno intero dal viaggio precedente, e i miei racconti hanno suscitato la curiosità di amici e familiari. Sulla strada passo quindi dai genitori per un saluto veloce: mamma è (prevedibilmente) trepidante, papà fa un tifo spudorato, contenuto a stento in virtù di un babaricino autocontrollo. Nei primi chilometri la scorciatoia del secolo si rivela una bufala: il passaggo a livello di Villamaggiore è stato soppresso, ho allungato il tragitto inutilmente. E cominciamo bene, penso tra me e me. Fino a Pavia, tolto un moderato traffico e la mia prima volta sulla Vigentina, è senza storia. Giunto alla stazione mi imbatto nello stesso baffutissimo addetto dell’Ufficio Movimento, al quale rivolgo la medesima richiesta di attraversare i binari con la bici per evitare le scale. Riesco giusto in tempo per l’arrivo del treno.

Stavolta ho scelto una variante sfiziosa: scendo a Ronco Scrivia con l’intento di raggiungere il porto di Genova direttamente pedalando. Grazie al cielo il traffico è scarso. All’unica fontanella faccio sosta per ricaricare acqua, e mi imbatto in una gruppetto di stradisti italo-inglesi assistiti da un equipaggio su furgone-appoggio: al mio saluto scopro che stanno facendo la Via Francigena in bici, da Canterbury a Roma. Riparto e con poca ulteriore salita scollino il Passo dei Giovi.

Dall’altro versante, verso Genova, la discesa è vertiginosa e prolungata, tormentata da un forte vento che risale dal mare lungo la Val Polcevera. Nonappena mi addentro nel tessuto urbano mi accorgo che questa città offre, ad un eventuale improvvido ciclista, due sole opzioni:
  • arrivare in treno e morire sul colpo, cadendo dalle scale della Stazione Piazza Principe nel tentativo di raggiungere l’agognato binario 1;
  •  arrivare in bici e morire di tumore, con più calma e ragionandoci su, per averne respirato fumi, puzze & miasmi.
Un tentacolare traffico motorizzato - a livelli pazzeschi - ha infatti ridotto Genova ad una camera a gas. Ciò che allo stesso tempo mi si imprime negli occhi è la Genova popolare della periferia appena attraversata, dimessa e a tratti fatiscente, tesa nello sforzo di strappare all’Appennino metri quadri di umana vivibilità. Ne traggo la convinzione che, nel migliore dei casi, non deve essere una città facile ove vivere. E’ comunque la prima volta che ho la possibilità di sperimentare un’altra Genova: sinora la mia esperienza, veicolata dalle automobili, è stata limitata a svincoli, caselli e raccordi autostradali che, come una palla da flipper, ti sparano direttamente in direzione del porto di imbarco dei traghetti. Un tragitto automatizzato, meccanizzato, canalizzato e coi paraocchi, quasi a voler impedire la visione della città a chi si imbarca. Il mio inedito arrivo in bici rompe così uno schema che nel mio personale vissuto dura da trentotto anni. Passo lo screening del check-in di imbarco (mi sono procurato il biglietto via internet), sul molo c’é un caldo soffocante, non tira un filo d’aria, le auto sono poche e mi rimangono da attendere solamente 40 minuti per varcare il portellone.

Sono stanco morto, e devo ammettere a me stesso che lo spirito non mi sta sorreggendo granché. Dopo la partenza, alle 18, bivacco su una panchina del ponte esposta al sole per un paio d’ore, dopodiché ceno, ri-bivacco con sonnellino incorporato e poi, finalmente, tutti a nanna alle 21.30. ‘Notte.
Chilometraggio parziale: 25 (casa/Pavia) + 35 (Ronco Scrivia/Genova) = 60 km
Chilometraggio totale: 60
Media 19 km/h
Tempo pedalato: 3 ore
GIORNO 2: 25.05.2010 – Arbatax–Marina di Gairo


Dopo una nottata ampiamente al di sopra della media per un passaggio ponte, all’arrivo ad Olbia mi sveglio col baccano delle auto che sbarcano per il primo scalo del viaggio, da qualche parte nelle viscere della nave. La mattina scorre quindi in modo pigro e indolente, lento e sonnacchioso nel tragitto sottocosta verso sud.

Bel solicello ma forte vento fresco. Sono ad Arbatax alle 13.40, dopo una flemmatica preparazione della bici in garage, ove mi sono intrufolato con impunita faccia da culo senza attendere gli annunci di rito. Faccio spesa a Tortolì, proseguo poi sul viale principale. L’attività pre-estiva sembra già essere iniziata, si avvertono i presagi della stagione turistica. Sguardi dei passanti tra il curioso, il biasimevole, l’ammirato. Fa molto meno caldo di quanto non mi attendessi. Infilo la SS125, e subito un bel traffico sostenuto mi accoglie festoso. Camion e autobus gareggiano tra chi mi sfiora più da vicino. A Barì Sardo ne ho abbastanza e devio dalla statale, scendendo verso il mare. Tutti i miei timori sull’eccessivo peso della bici svaniscono constatandone la maneggevolezza e fluidità, tutto sommato il carico è disposto bene tra borse anteriori e posteriori, lato destro e sinistro (e ti credo, con le ore spese a fare tentativi sulla bilancia pesapersone...). Mi tranquillizzo un pò constatando che anche le gambe ed il fiato rispondono all’appello. Per adesso anche in salita non arrivo agli 1-1 dell’anno prima.... Verso Marina di Gairo è tutto pressoché deserto, rare abitazioni e molte coltivazioni. Avvicinandomi al Monte Ferru, la cui maestà dominerà il tragitto sino al campeggio, comincio a scattare foto. Più a sud la strada si impenna, donando in cambio scenari mozzafiato con colori da acquerello. La luce da ovest che si sta abbassando verso il tramonto incendia sul rosso le tinte delle rocce e della vegetazione.

Un ultimo strappo assai deciso e supero l’ultimo baluardo, costituito da una sella stretta verso il mare da un promontorio e a ovest le alture, prima di precipitare velocissimo in discesa con tre turbotornanti sul Campeggio Coccorrocci. E’ praticamente deserto, estremamente isolato, schiacciato sul mare dal bastione roccioso appena scavalcato, che verso sud si interrompe lasciando sbocco ad una stretta valle densamente boscosa. Niente linea del cellulare. Alla reception raccolgo qualche informazione e collimo qualche coordinata. Ringrazio subito di essermi organizzato autonomamente per cenare: a causa delle scarse presenze di ospiti l’apertura serale del ristorante è in forse, mentre invece è assolutamente certa la chiusura del bar. Così, dopo montaggio tenda/doccia/bucato mi procuro il necessario per la colazione dell’indomani al market del campeggio. Cena campestre a cinque stelle: risotto ai gamberetti caldo caldo (doppia porzione), qualche pomodorino per reintegrare i sali ed il gioco è fatto. Su suggerimento della signora della reception mi reco in spiaggia alla ricerca della linea per il cellulare, non ho ancora comunicato che sono ancora vivo e sto bene. La spiaggia è sassosissima, grossi ciottoloni scuri attentano all’incolumità delle mie caviglie. Dopo qualche peripezia faccio le chiamate di rito, terminando praticamente al buio dopo un tramonto alle 18.30. Per dare un tocco di classe alla serata, tazza di camomilla fumante. Domani stimo che saranno 60 km. Neanche stanotte avrò difficoltà a prendere sonno. Buonanotte a tutti.
Chilometraggio parziale: 35 km
Chilometraggio totale: 95 km
Media: mi sono dimenticato di segnarla
Tempo pedalato: idem
Salita cumulata: come sopra
GIORNO 3: 26.05.2010 – Marina di Gairo – Porto Corallo
Tappa noiosetta oggi, con un solo, intensissimo picco di terrore. La notte è trascorsa bene, tolto un ignoto suono ritmico che, nel cuore della notte, ha destato tutti gli ospiti del campeggio per un’ora buona. Grazie a tappi per orecchie e mascherina per occhi, la vera arma totale, mi sveglio da solo e con tutto comodo, alle 08.30. Colazione da campo a base di Nutella, pane integrale, caffélatte, miele e pappa reale. Toilette, smontaggio accampamento e in due orette sono in marcia, col sole già alto nella (rivelatasi inutile) speranza di una temperatura decentemente tiepida. I primi tre chilometri sono a base di salita assai stronzetta, affrontata a freddo. Ripercorro a ritroso un tratto verso nord, lungocosta verso Marina di Gairo/Perdempera, piegando poi ad ovest al primo bivio, verso la 125. La statale è trafficatissima ma ampia, il che mi fa stare (ma neppure poi troppo) tranquillo. L’arteria a scorrimento veloce assorbe le mie risorse visive, e non godo appieno del panorama circostante tanto sono impegnato ad evitare un biasimevole téte a téte con un autotreno. Mi approssimo così alla galleria che scorre sotto le propaggini settentrionali del gruppo del Monte Ferru. Il viaggio in bici è così: offre al cicloviaggiatore molteplici emozioni tra loro anche diversissime, dall’ammirazione stendahliana per un paesaggio, all’ammutolire davanti ad un tramonto, allo sconforto per una salita. A me oggi tocca provare il puro terrore dell’attraversamento del tunnel in direzione di Tertenìa. Prima di imboccarlo mi fermo, monto i fanali, indosso il giubbottino ad alta visibilità, traggo tre respiri profondi, scorgo la mia esistenza scorrermi davanti agli occhi in un minuto, conto fino a un milione e mi inoltro nell’apertura artificiale. Pedalo completamente in apnea per tutti i due chilometri della galleria. Fortunatamente c’é l’illuminazione, ma lo stile di guida locale, fortemente orientato a ignorare qualsivoglia forma di vita esterna all’abitacolo, non mi consente eccessivo relax. Alla fine va tutto bene, e per celebrare lo scampato pericolo mi ritraggo in una foto-ricordo all’uscita del tunnel. Poco dopo decido di averne avuto a sufficienza, esco dalla statale e seguo il vecchio tracciato della SS125. Un cartello “Area picnic” suggerisce il programma della prossima ora. E’ una bella area, c’é una fontana naturale, ombra e tavolini in cemento in ottimo stato. C’é anche una megatenda di una coppia olandese in campeggio abusivissimo, se lo sapessero le Guardie Forestali non passerebbero un bel quarto d’ora. Due tramezzini al tonno e pomodori mangiati a morsi sanciscono il pasto. Rifaccio scorta d’acqua e proseguo per Tertenìa. Nell’attraversare il centro prendo il caffé, faccio bancomat e ricarica telefono, e visto anche che c’é linea ne approfitto per postare qualcosa su Faccialibro. Riparto con prua quasi esattamente a sud, incanalandomi lungo l’ampio fondovalle solcato dal Torrente Quirra, e inoltrandomi nell’asperrimo e omonimo Salto. Alla mia sinistra, verso est, la valle è chiusa più repentinemente da pareti rocciose, mentre verso ovest, alla mia destra, il declivio sembra essere più dolce. Nessun centro abitato per decine di chilometri. Passo accanto all’entrata del famigerato PISQ, chissà poi cosa avranno avuto da nascondere.... Oltrepassato il picco con le rovine del Castello di Quirra la valle si allarga aprendosi verso il mare a sinistra. Tolto un bar in località San Giorgio che occorre egregiamente alla bisogna per pipì e acqua, dopo 30 km di nulla giungo a Villaputzu e faccio spesa all’LD. Mi sorbisco la commiserazione ed il compatimento della cassiera, che non concepisce proprio come si possa volontariamente sottoporsi al supplizio inenarrabile di un VIAGGIO IN BICICLETTA..... Povera lei, non sa cosa si perde. Sul breve tratto di strada rimanente per il campeggio la temperatura crolla, ho un calo pazzesco, tento inutilmente di riprendermi con un Polase ma sono in riserva sparata. Costeggio un estesissimo stagno, circondato da opere idrauliche, condutture e chiuse imponenti. Alla mia destra mi guarda il Flumendosa, intento a prendere di mira la sua foce. Sbaglio strada, nonostante le indicazioni del GPS e della cartina non ho ben capito dove si trovi questo cacchio di Campeggio Porto Corallo, oltrepasso un cartello di indicazione del camping senza avvedermene e prima di trovare l’ingresso giusto mi tocca una gita di 5 km supplementari andata e ritorno dal (fortunatamente) vicino Porto Tramatzu. Sono messo male, una volta al campeggio neppure mi accorgo della reception proprio all’ingresso e vago per qualche minuto instupidito dal freddo e dalla fame prima di tornare indietro per il check-in. Mi scelgo la piazzola, sto bramando una doccia calda, caldissima, praticamente uno stufato di ciclista. Mentre smonto le sacche trasecolo & sbigottisco: spuntando letteralmente dal nulla mi accoglie un altro cicloviaggiatore, tedesco e paraplegico, che con la sua tre ruote a trazione a braccia mi racconta del suo giro d’Europa che dura dal Gennaio precedente, con l’intento di proseguire sino al successivo Ottobre. Facciamo in tempo a scambiare due parole mentre mi dò da fare. Ma la fame è troppa, mi scuso e antepongo la cena a tutto il resto. Mentre l’acqua per la pasta si scalda dò il via alle danze con un cacciatorino dilaniato a morsi, al quale seguono 326 grammi di ricotta vaccina fresca, 100 grammi di pasta e un intero barattolo di sugo pronto alla bolognese. Burp. Dopodiché doccia, bucato, camomilla di rito. Ronf, zzzz.....
Chilometraggio parziale: 72 km
Chilometraggio totale: 167 km
Salita cumulata tappa: 550 mt
Velocità media: 17 km/h
Tempo netto di pedalata: 4h 30’
GIORNO 4: 27.05.2010 – Porto Corallo – Villasimius
Finalmente una tappa interessante. Al risveglio il mio amico paraplegico ha già sbaraccato e preso il volo. Ieri sera chiacchierando ho saputo che è stato un alpino paracadutista delle forze speciali dell’Esercito tedesco. A giudicare dalla cicatrice sulla gola, quasi certamente una tracheotomia, deve essergli accaduto qualcosa di grosso, e anche dalle difficoltà nel parlare (un inglese peraltro perfetto) deve essere anche passato dal coma. In un solo momento mi ha domandato di aiutarlo ad alzarsi dal suo mezzo per entrare nella tenda: in posizione eretta, seppur con postura malferma e all’apparenza fragile, mi sovrastava di tutte le spalle. Penso che dopo avere conosciuto anche solo la semplice esistenza di una persona così, non esistono più scuse, di nessun tipo, per nessuno e nessuna circostanza. Mentre smonto tutto una penetrante traccia olfattiva mi segnala che uno dei rappresentanti della nutrita popolazione felina del luogo ci ha tenuto a lasciarmi un souvenir pisciandomi sul telo sottotenda. Reprimendo lo schifo completo le operazioni di carico e mi incammino sotto un cielo plumbeo. Fa fresco, e indosso solamente uno stringatissimo gilet azzurro più consono ad un solleone ferragostano, perché il bucato di ieri sera alla mattina non si era ancora asciugato per l’umidità notturna. Con tecnica collaudata l’ho quindi steso tutto attorno alle sacche: l’effetto finale è una coreografia svolazzante di calzini e imbottitura in spugna. A Villaputzu faccio spesa per il pranzo, a Muravera colazione con un bigné di una freschezza degna di Luca Montersino. Il traffico è notevolissimo, c’è parecchia gente in giro e cominciano a vedersi i turisti. Molto vento, assai fastidioso. Come ammonimento scendono anche due gocce. In direzione San Priamo mi affianca un attempato ma tonicissimo stradista, che incuriosito dall’attrezzatura attacca bottone. Fa parte di una comitiva di 13 ciclisti che sta facendo il giro della Sardegna. Io gli racconto per sommi capi il mio programma e mi fa i complimenti per il coraggio. A San Priamo lo lascio, esco dalla statale e mi dirigo verso Capo Ferrato, che comincia a intravedersi in lontananza. Il tracciato, a volte sterrato a volte sconnesso, si addentra nella zona umida dello Stagno di Colostrai/Feraxi, un’area costiera di notevole interesse naturalistico per le specie animali residenti e di passaggio stagionale, stretto ai piedi di un piccolo sistema di alture coniche che ne limita l’estensione a ovest. Scatto molte foto, e noto che finalmente le persone che incontro ricambiano i saluti. Il Monte Ferru incombe sulla bella sterrata a fondo compatto che, con una facile ascesa, porta a scavallare il promontorio di Capo Ferrato. Il fondo è ben tenuto ma trafficatissimo di turisti automontati che salgono per godere della vista dalla esorbitante sommità dei 67 metri della sella al culmine. Una volta sull’altro versante, mi ritrovo in un insospettabile angolo di Canton Ticino in riva al Mediterraneo, con pascoli verdi, campi trebbiati, dolci declivi e mucche serafiche. Giungo al mare e sosto per il pranzo a tramezzini e mortadella. Dopo aver ripreso il cammino verso Costa Rei il panorama si fa desolante, con centinaia di casette-vacanza rigorosamente chiuse per tre stagioni all’anno a imbruttire il panorama. Ma il peggio di tutto sono i cantieri e le case lasciati a metà, incompleti e abbandonati. Soffocando il voltastomaco mi fermo in uno di questi borghetti finti con boutiques che si affacciano su piazzetta lastricata in cotto e prendo un caffé. Come riparto mi accorgo che le gambe stanno entrando in temperatura, e posso permettermi una discreta andatura, filando per un bel tratto di diversi chilometri a 25/27 all’ora. Modero comunque l’entusiasmo per non rovinarmi, devo ancora affrontare le salite che portano a Villasimius. Queste, puntualmente, si appalesano una volta superato il minuscolo abitato di Sant’Elmo. Le gambe grazie al cielo stanno ancora tenendo, ma oltrepassata Cala Sinzias mi scontro con un vento in direzione contraria, teso e freddo. In lontananza, alla mia sinistra, si intravede l’isola di Serpentara, circondata dall’area marina protetta. La sagoma piatta e allungata che spunta dal mare in direzione sud-nord mi accompagna a fianco dei pronunciati saliscendi della strada. Arrivo finalmente al belvedere che domina Serpentara dall’alto, ma la tanto sospirata sosta ristoratrice non è possibile, a causa del fortissimo vento che mi fa rabbrividire una volta fermo. Chissà come mai non mi mviene in mente di indossare la giacchetta. Mi trattengo qualche minuto per rispondere al saluto di una pattuglia di tardoni arricchiti in sella a motociclette costosissime, che mi domandano consigli sulla strada. I nonni motomontati, infatti, ignorano di avere oltrepassato di svariati chilometri a sud il punto convenuto per incontrare degli amici (Cala Sinzìas, da loro fastidiosamente pronunciato “Sìnzias”). Ci impiego un bel po’ a convincerli che si trovano nel punto sbagliato, ma alla fine si convincono davanti alle incontrovertibili prove di una mappa e di un GPS cartografico. Riprendo il cammino pressoché ipotermico, oltrepassando i 170 metri del picco, e dopo un’ulteriore salitina raggiungo finalmente il campeggio a Villasimius. Scelta la piazzola, con moltiiiiissima calma faccio qualche esercizio di stretching sotto la pineta, merenda, Polase. Monto la baracca anelando una splendida, vaporosa e incandescente doccia. Ma il cosmo complotta contro di me (o più semplicemente mi capita di essere l’ultimo arrivato), quindi NON C’E’ ACQUA CALDA. In una caleidoscopica sequenza di bestemmie comunque sopravvivo, e onde evitare l’aggravarsi dell’ipotermia mi vesto un po’ pesante prima di uscire a far la spesa. Sulla strada del rientro in campeggio sosto in piazza per un kebab formato condominio, patatine per sette persone, ed una bottiglia di ottimo e rigenerante infuso alcoolico a base di malto e luppolo di produzione locale (praticamente una birra). Inganno la serata con un paio di post su Faccialibro col cellulare, dopodiché dichiaro conclusa la giornata e mi avvio al camping. Ora fa DECISAMENTE FREDDO, anche per il vento forte. Tutti a nanna, però non prima di avere coperto la biga con i teli, stanotte c’è rischio pioggia.
Chilometraggio parziale: 65 km
Chilometraggio totale: 232 km
Velocità media: 16 km/h
Salita cumulata tappa: 510 mt
Tempo netto di pedalata: 4 ore
GIORNO 5: 28.05.2010 – Sosta a Villasimius
Giornata di ozio. Sveglia diesel, 08.30 o giù di lì. Come oramai d’abitudine, mi accorgo di essere praticamente l’unico ospite italiano del campeggio. Nella piazzola accanto alla mia una coppia di nazionalità indefinita. Per il resto olandesi e tedeschi. Sembrerebbe ci sia un tempo decente, ma il cielo si apre realmente solo dopo qualche ora. Pratiche logistiche: barba & capelli, bucato del giorno prima e stoviglie della colazione. In effetti stanotte scorsa ha fatto due gocce di pioggia, ma nulla di che. Deposito i ghiaccioli al freezer del market, mi converto in configurazione balneare e mi godo un’oretta di sole. Attorno all’una e mezza insalatona mista e caffè. Stendo le ossa in tenda ascoltando musica, mi faccio un giro su FB e posto qualche foto presa col cellulare in spiaggia. Poco lontano dalla mia piazzola, nell’area bungalows, sono arrivate due coppie di Torino. Mentre rassetto la tenda sento due di loro che, passando nei pressi, commentano favorevolmente l’idea del viaggio in bici. Da dentro la tenda replico loro, e inizia una conversazione a base di complimenti per il coraggio e di questo modo di girare il mondo. Mi invitano per la grigliata della cena, insieme ad un’altra famiglia inglese poco distante con tre figli. Più tardi nel pomeriggio assisto e collaboro ai preparativi col barbecue del camping. C’è da mangiare per un Corpo d’Armata. Nonostante lo stomaco vuoto il vino comincia a fluire copioso come aperitivo, affetto il pane per le bruschette. Conosco quindi una delle mogli della comitiva, Valeria, ostetrica torinese trapiantata ad Alassio e non ancora disillusa dal proprio lavoro. Non posso evitare di citare l’esempio di mia madre, che condivide pienamente. Con tutta la truppa ci sediamo a cenare, e inauguro il pasto con uno spicchio d’aglio dal gusto talmente intenso che mi cauterizza le fauci e la gola per parecchi minuti. Carne alla griglia e bruschette si susseguono vorticosamente, assieme a vino e tantissime chiacchiere. Sfrutto il mio inglese per conversare piacevolmente con Karen, la moglie inglese di Mike, interessante e acuta. Loro parlano un inglese semplicamente da manuale, cristallino, privo di gergo. Ma il vero esame di inglese che sono convinto di avere brillantemente superato è il dialogo con il loro terzo figlio, Jack, madrelingua treenne che più biondo non si può. Al traguardo delle TRE porzioni di gelato al tiramisù mi dichiaro soddisfatto nonché ampiamente alticcio, e buonanotte ai suonatori. Prima di crollare nelle fodere comincio ad impacchettare qualcosa.
Chilometraggio parziale: 0.
GIORNO 6: 29.05.2010 – Villasimius – Cagliari
Sveglia alle 06.45. Stanotte sono stato ad ascoltare il picchiettìo della pioggia sulla tenda per ore, e deve aver smesso solo poco prima dell’alba. A causa della gozzoviglia della sera precedente non sono esattamente lucidissimo. Tra una chiacchiera e l’altra di chi mi viene a salutare per la partenza, adulti e bambini, italiani o inglesi che siano, riesco comunque a sbrigare le mie cose, ma con tempi biblici. Per sovrammercato si avvicina anche l’indefinibile coppia della piazzola accanto, che si rivelano essere polacchi residenti a Monaco di Baviera. Mi chiedono le previsioni del tempo, e qualche suggerimento sul da farsi in quella zona in caso di pioggia. Dispenso generosi consigli, ma purtroppo i polacchi hanno poco tempo a loro disposizione. Un ultimo giro di saluti generali e parto all’incredibile orario delle 11.00, talmente fuso da non ricordarmi di ritirare i ghiaccioli dal freezer del market. Passo a fare la seconda colazione, compro acqua e un tramezzino, ricarico il telefono al bancomat. Irrompendo nella piazzetta del paese, gremita per l’aperitivo del sabato, divengo l’attrazione degli astanti. Finalmente parto. E quindi, per varare adeguatamente la tappa di oggi, si mette a piovere. La temperatura precipita, nei primi 5 km mi fermo spessissimo per tirare fuori il giubbottino impermeabile, tirare fuori i teli coprisacche, montare i teli coprisacche, sistemare i teli coprisacche, verificare i teli coprisacche, riaccertarmi che tutto vada bene, mettermi gli occhiali. Il traffico sin da subito è notevolissimo. Le gambe non rispondono come dovrebbero, sto faticando come un mulo. Il panorama è plumbeo, opaco, saturo di umidità, velato e scuro. Nubi basse e minacciose scrutano maligne. Le salite si susseguono, ne conterò almeno una dozzina. Ciò di cui invece perdo il conto quasi subito sono i vaffanculo lanciati all’indirizzo dei coglioni alla guida che mi sfiorano sulla litoranea, anche di pochissimi centimetri. Qualcuno, evidentemente abituato a non mandarla a dire, mi urla anche dal finestrino di farmi da parte. Perché non scendi dall’auto e provi tu di persona a mettermi da parte, brutto stronzo? Lì per lì, conscio dello squilibrio, mantengo la calma e mi concentro sul mio motore, le gambe, che oggi hanno bisogno di un surplus di attenzione. Eleggo Geremeas quale sede del mio pranzo, e lascio la Provinciale. Sulla spiaggia pasteggio con un tramezzino e riparto che ha smesso di piovere. Mantengo comunque l’assetto impermeabile, anche perché non fa affatto caldo. Più avanti faccio provviste alla ben nota Flumini di Quartu. Scorro senza difficoltà per il litorale ben conosciuto che mi porta sino al Poetto, alla cui estremità ovest ricomincia a piovere. Non è solo una pioggerellina, è costante e decisa. Cerco di affrettarmi, sperando che la ricerca del Bed & Breakfast che ho contattato ieri non prenda troppo tempo, rischio di fare una doccia sui pedali. Vado avanti tutto sommato noncurante, più mi avvicino al centro e maggiore è il traffico. Vengo deviato perché la strada diretta è chiusa presso la Madonna di Bonaria per una manifestazione religiosa. Una volta giunto al porto scendo dalla bici e percorro a piedi i portici dello struscio cagliaritano, sfilando con bici carica al fianco e casco in testa davanti a bar, tavolini e vetrine. Nuovamente sembro l’attrazione del villaggio. Spiove. Dopo un paio di tentativi a vuoto trovo il B&B Sardinia Domus, che consiglio vivamente. Mi fanno lasciare la biki in un garage presso un altro stabile, peraltro infestato di umidità e stillante gocce di infiltrazioni per la pioggia dei giorni scorsi. Prelevo solo ciò che mi serve per il pernottamento, e affido il resto all’altrui civiltà (non ho altra scelta, del resto). Mi installo in camera, bella, ampia, pulita e tutta nuova. Doccia rovente, scrosciante, ma soprattutto oltre i trenta minuti. La cabina doccia ha un’insolita pianta triangolare. Come esco dalle abluzioni rituali avverto un rombo cupo in sottofondo che riempie la stanza, sulle prime credo sia la doccia o lo sciacquone della stanza accanto, ma mi pare così strano. Mi accorgo dopo un secondo che si tratta della pioggia fuori dalla finestra, che dà su un angusto cortiletto a cielo aperto. Si tratta di una autentico diluvio che si sta abbattendo sulla città, credo i meteorologi la chiamino “bomba d’acqua”, di un’intensità personalmente mai sperimentata prima. Faccio mente locale a dove mi trovavo solo due ore prima, e ne convengo compiaciuto che ogni tanto una botta di culo riempie sempre di buon umore. E questa è di qualità, 100% garantita. Esco dalla tana per procacciarmi il cibo, il diluvio si è esaurito in una pioggerellina. Alla Rinascente mi procuro un nuovo taccuino per proseguire i miei appunti di viaggio, poi fast food. Una quantità inenarrabile di cibo (o pseudo tale), al limite del vergognoso, prende la via del mio stomaco, tanto da doverne testimoniare l’elenco:
1 doppio hamburger
6 crocchette di pollo
1 porzione grande di patatine
1 insalata caprese condita
1 fetta di ananas
½ litro di acqua.
E buon appetito. Due passi al porto e poi alla reception del B&B, per una mezz’oretta di navigazione su internet. Neppure stasera avrò difficoltà ad addormentarmi. Buonanotte.
Chilometraggio parziale: 56 km
Chilometraggio totale: 288 km
Velocità media: 16 km/h
Salita cumulata tappa: 533 mt
Tempo netto di pedalata: 3 ore e ½
GIORNO 7: 30.05.2010 – Cagliari – S.Margherita di Pula
Sveglia comoda alle 07.00. Un’occhiata al centimetro quadrato di cielo intuibile dal cortiletto interno ove si affaccia la finestra della mia camera, e sembrerebbe proprio che il diluvio universale sia un ricordo del giorno prima. In tal caso sono felice di tramandare la stirpe dei cicloviaggiatori in una virtuale Arca di Noé. Preparazione rapida e sontuosissima colazione. Mi ritrovo al tavolo con cinque accademici romani convenuti a Cagliari per un simposio. La sala colazione è, di fatto, la cucina dell’appartamento nel quale è stato ricavato il B&B, al cui ampio tavolo si avvicendano gli ospiti mano a mano che si alzano. Faccio fuori un’abbondante caffélatte con miele, sei (diconsi sei, e ripeto: sei) fette biscottate burro e marmellate varie, succo di frutta e yogurt. Evvualà che si parte benissimo. La risistemazione delle carabattole sulla bici prende una quarantina di minuti, poco dopo la partenza mi fermo per fare la spesa. Riflettendoci bene, questo è un vero punto debole del cicloviaggiatore solitario: il doversi procacciare del cibo obbliga a lasciare il mezzo fuori dai negozi, peggio ancora se centri commerciali o supermercati. A parte il peso di un comune catenaccio, pressoché d’obbligo per salvaguardare almeno la bici in sé, il vero atto di fede nel prossimo è il dover lasciare incustoditi tutti gli effetti personali contenuti nelle borse, tolte le cose assieme più preziose e compatte che è possibile portare addosso (portafogli, fotocamera, GPS). Personalmente posso testimoniare di non avere avuto (sinora) alcun fastidio, e col tempo mi sono convinto che questa cosa sia strettamente connessa col senso di generica benevolenza riscossa dal cicloviaggiatore nella gente che incontra. Come imbocco la direzione per Pula mi avvedo dei seguenti tre fatti:
  1. la strada si tramuta in un battibaleno in un intrico di viadotti e svincoli, allegramente
    percorsi dalla popolazione locale a velocità da autostrada. Praticamente l’inferno del cicloviaggiatore;
  2.  il vento si è messo sostenuto da maestrale. Tenuto conto della direzione nella quale sto viaggiando (verso ovest), equivale a dire che TENDE A RALLENTARMI E BUTTARMI A SINISTRA, CIOE’ VERSO LE AUTO;
  3. sono sovraccarico, oppure il carico è messo male, perché la bici risponde in modo strano, autonomo e indipendente.
Considerata la commistione potenzialmente letale dei succitati fattori, ci metto MOLTA attenzione in più. Tutto migliora quando, volgendo la strada naturalmente verso sud, il vento cessa di essere un problema e si trasforma in propellente, complice l’ampia superficie velica offerta dalle sacche posteriori. Filo come un treno, odo il vento fischiare tra i raggi. Il traffico di auto aumenta notevolmente nel volgere di un minuto, la soleggiata Domenica tardo-primaverile attrae la transumanza verso le spiagge per un anticipo di estate. Anche oggi dispenso abbondanti vaffanculo a chi mi sfiora, e ce ne sono parecchi dalla mira molto fine. Il paesaggio comincia a farsi interessante, mi fermo spesso per foto e acqua. A Capoterra termina questa specie di tavolo da biliardo asfaltato, mi addentro nella viabilità locale sino a raggiungere il mare per uno spuntino a base di frutta. Più oltre, a Sarroch, faccio conoscenza con la raffineria costeggiandone per chilometri una parte del dedalo di tubazioni prima di entrare nel centro abitato. Il fascino per questa opera dell’ingegno umano che mi pervade (possiedo sempre una formazione di tipo tecnico) si frantuma bruscamente nonappena mi porto sottovento: un pungente fetore pervade le vie respiratorie, ingolfando naso e gola e ottundendo il cervello. Nel paesino trovo un angolino ove fermarmi a pranzare, nelle intenzioni inziali doveva un tempo apparire come un parco pubblico. Mi risolvo quindi a fare una diversione rispetto alla comoda e dritta strada diretta: per raggiungere Pula passerò dal Monte Arrubiu. Si tratta del Gran Premio della Montagna di oggi. Mentre mi inerpico, quindi, si susseguono paesaggi differenti, da quello tipicamente costiero a quello montuoso, alla coltivazione a uliveto a quella a frumento. La prima impressione che ricevo di Pula è di stare dentro una bomboniera: raccolta ma piena di dolcezza. Il centro del Paese è infatti riccamente ornato per la festa di Sant’Efisio, e si respira un’aria assai turistica. Mi fermo ad un bar nella piazza principale per un’esigenza logistica tanto inderogabile quanto non delegabile, e osservo i tanti avventori nei bar e ristoranti che affacciano sullo spiazzo. C’è anche il banchetto per una cresima: sedute ad una panchina, a un metro dalla bici, la festeggiata e un’amica stanno recitando conte, filastrocche e scioglilingua sepolti sotto le ceneri delle mie memorie infantili. Gioisco della scoperta che esiste ancora un modo umano, schietto, diretto e autenticamente fantasioso di giocare tra ragazzini, mi rallegro della insospettata continuità dei giochi più semplici che temevo estinti, soppiantati da telefonini, consolle di gioco, computer e cazzi vari. Mentre mi allontano a cavallo della bici, verso l’area archeologica di Nora, sono incapace di reprimere un sorriso. L’atmosfera turistica è ovunque, a Pula, e credo trovi il proprio apice in prossimità proprio di Nora. L’immancabile ristorante offre rifugio a centinaia di persone, mentre un viavai notevole di auto, moto e visitatori sciama da e per l’ingresso dell’area archeologica. Riesco ad agganciare la visita guidata delle 15.00, e mi lascio immergere nella Storia, quella con la “esse” maiuscola, dei Punici e dei Romani. Riprendo immagini ispirate, è un bel luogo interessante e me la sto godendo un mondo. Alle 16.30, dopo una godibilissima visita, riprendo il cammino e con 30 minuti di pedale giungo al campeggio. Dopo il montaggio tenda, doccia, bucato e cena faccio conoscenza con Antonio, Vigile del Fuoco di Lucca che sta percorrendo il giro completo dell’isola da Olbia in senso antiorario, e oggi è arrivato da Sant’Antioco. Facciamo quattro chiacchiere più tardi al bar, scambiamo consigli ed esperienze, impressioni, soprattutto perché ciascuno di noi sta arrivando dalla direzione verso cui l’altro è diretto. Dopo due giri di mirto tutti in branda, siamo entrambi stanchi e domani prevedo la tappa più lunga del giro, vorrei attivarmi ad un orario decente.




Chilometraggio parziale: 53 km

Chilometraggio totale: 341 km
Velocità media: 18 km/h
Salita cumulata tappa: 300 mt
Tempo netto di pedalata: 3 ore
GIORNO 8: 31.05.2010 - S.Margherita di Pula - S. Antioco
Pazzo scriteriato.
Folle senza cervello.
Idiota.
Malato in testa.
Coglione.
Potrei continuare per molto ancora ad elencare gli aggettivi coi quali mi sono autodefinito dopo la tappa di oggi, 93 km a dir poco allucinanti, una tratta che in condizioni normali non presenta difficoltà eccetto forse la lunghezza, ma che oggi ho percorso tutta completamente controvento. E non una brezzolina qualsiasi: stanotte si è alzato un Maestrale poderoso, le cui avvisaglie erano percepibili già stamattina alle 06.45, e avebbero dovuto consigliare una variante al piano. Antonio, il vigile del fuoco, è passato a trovarmi mentre sbaraccavo tutto, con foto di rito scattata da un vicino di tenda tedesco. Lui oggi ha proseguito per Cagliari contando di raggiungere Villasimius, e nel percorso dovrebbe avere il vento a favore. Io riesco a muovere alle 10.00, e ai primi giri di pedale mentre lascio il campeggio il titolare, un anziano e asciutto piemontese di poche parole, mi congeda con volto serissimo: “Oggi sarà dura”. Baciato dalla mia serena strafottenza prendo abbrivio lungo la stretta ma pittoresca litoranea, incorniciata da pini marittimi e torri spagnole che si alternano ad altri campeggi e case di vacanza seminascoste dalla vegetazione. Prendo quindi la SS195, ma solo per pochi km. Come fuoriesco dallo schermo protettore dei pini marittimi, sono investito da un muro invisibile, un urto fluido, un’impalpabile spinta contraria. Un vento della Madonna, orientato esattamente contro la mia direzione di avanzamento, che rende tutto maledettamente difficile. Non riesco però a non considerarlo divertente, nonostante non riesca a procedere a più di 12-15 km/h. In queste ottovolante dosare le energie diventa un esercizio di meditazione trascendentale. Dalle parti di Capo Malfatano e sino a Capo Spartivento (nomen est omen) il tracciato diventa nervoso seguendo la linea frastagliata della costa, con saliscendi e tornantelli in salita che mi portano alternativamente ad espormi in campo aperto in pieno vento. In molte occasioni, durante le discese, mi imbatto in un vero e proprio muro, un urto contro qualcosa che sembra solido, e mi fa rallentare violentemente anche di 20 km/h in pochi istanti. Spesso devo imprimere forza alla pedalata anche in discesa per poter avanzare. Mai vista una roba così. Ancora, spesso devo pedalare in assetti inusuali, accucciato o inclinato per compensare il vento laterale, o tutto storto. Non riesco così a godere appieno dei panorami splendidi che mi si offrono tutt’attorno, della natura per lunghi tratti inviolata, a causa della strenua concentrazione per procedere in condizioni, adesso lo so, proibitive. Anche i rari turisti che hanno comunque scelto di uscire con una giornata del genere appaiono stralunati, poco inclini al saluto, passivi. In corrispondenza di Capo Malfatano mi fermo per qualche foto, ed il vento mi sospinge da fermo, devo ancorare la bici coi freni per non retrocedere. Colgo un brandello di conversazione in un gruppo di turisti, stando al notiziario sembra che il vento stia soffiando a 100 all’ora, e stia facendo danni nei centri abitati della zona. In una piazzola-belvedere prima di Capo Teulada - rigorosamente esposta al ventaccio - faccio pausa per pranzo: sperimento il primo caso di tramezzino-aquilone, per poco non mi vola dalle mani!!!!! Dato il dispendio di energie che sto subendo, sarebbe stata una perdita insostituibile dalle conseguenze drammatiche. Riprendo il cammino e comunque procedo, nonostante gli imbecilli che tentano di tirarmi sotto. Giungo a Porto Budello, un minuscolo borgo marinaro neppure segnato sulle mappe, incastrato al riparo dell’insenatura che delimita il promontorio di Capo Teulada a est. Quel tratto sembra sufficientemente riscaldato dal sole e riparato dal vento: decido così di tirare un po’ il fiato e fare il punto, perché i chilometri sono ancora molti, il vento non accenna a dare tregua, io non sto facendo l’Iron Man e a portata di pedale si offre un campeggio per la notte. Mi adagio mollemente sotto la tettoia di un chiosco-bar chiuso per turno, scopro che accanto c’è anche un ristorante. Una cameriera armeggia sul retro del locale adiacente, mi adocchia incuriosita da una certa distanza. Mossa a compassione, intuendo che il mio target primario era il chiosco, si offre di portarmi un caffè. In capo a due minuti mi ritrovo così sotto la tettoia ornata di palme, a gambe stese, con tazzina e piattino, a riflettere. L’euro meglio speso da un un bel pezzo in qua. Durante la mezz’oretta di sosta analizzo le opzioni sul campo: perseguo l'obiettivo senza deflettere, fedele a me stesso e alle mie intenzioni? Dirigo sul campeggio a soli tre km da qui, per oggi può bastare e se ne riparla domani? Oppure butto direttamente la bici in mare? A neppure venti minuti dall’approfondita analisi ho già ripreso a pedalare verso la méta prefissata di Sant’Antioco. Quando uno è cocciuto non lo si può mica curare, e se non posso vincere vorrà dire che cercherò un pareggio onorevole. Il vento, forse incanalato dall’orografia circostante, pare ulteriormente rinforzare. Infatti sto percorrendo un tratto di fondovalle chiuso ai lati da medie alture, che formano un ripido canale che sbocca sulla provinciale. Da Capo Teulada a Sant’Anna Arresi è una lunga e rettilinea discesona. Come giungo faccio bancomat, mi fermo per un gelato e seduto al tavolino fuori da un bar scambio due chiacchiere con due personaggi locali. Le mie intenzioni di fare scorte al locale emporio sono frustrate dall’orario di apertura da provincia messicana (le 17), che comprometterebbe seriamente il mio tentativo di giungere al campeggio a Sant’Antioco prima che faccia buio. Prendo così per Porto Pino senza perdere altro tempo, fermandomi ad un desolatissimo market lungo la strada. Oltrepassando ogni barriera orografica in direzione del vento, cessa anche ogni speranza che questo si indebolisca. Infatti adesso il Maestrale è letteralmente inferocito. Sono così assorbito dalla gestione delle forze, dalla navigazione, dalla concentrazione per non cedere proprio adesso, che ho poca coscienza del circondario. Il mio mondo si sta riducendo progressivamente alla striscia bianca a lato della strada, che seguo pedissequamente dosando le forze contro gli schiaffoni del vento. Le raffiche laterali da sinistra spesso mi fanno finire fuori strada, e solo gli ottimi freni mi salvano dal perdere l’equilibrio. La viabilità assume tratti lineari, lunghe rettifili tracciano ragnatele tra le alture a est, verso San Giovanni Suergiu, ed il mare a ovest. Raggiungo uno stato tra il catatonico e l’incazzato (“… e va beh, sono cose che capitano in una vacanza in bici… ma che cacchio, proprio la MIA vacanza?”). Chilometro dopo chilometro è divenuta una sfida del tutto mia contro me stesso, i miei limiti e gli elementi avversi. E sarà proprio questo pungolo, questo voler sapere sino a che punto posso alzare l’asticella, a fornirmi la motivazione giusta per proseguire, a scapito di ogni buon senso comune e di sicuro a scapito di molta della poesia del viaggio lento. Da Porto Pino in avanti centellino le forze, riduco il rapporto di pedalata per mantenere una crociera costante di 15 all’ora, bevo molto, mangio di tutto dando fondo alle scorte strategiche di noccioline, barrette e gelatine energetiche. Il sole sta calando, ho oltrepassato le 17 e manca ancora un pezzo. La mia trance agonistica mi esclude per lunghi tratti la visuale del paesaggio circostante, di cui serbo un ricordo sbiadito, ma sono tranquillo perché sento che comunque la gamba tiene. Equilibrio e traiettoria, cinque sensi impegnati solo in questo. Procedo così per qualche decina di km, mosso solo dall’orgoglio (che, è bene ricordarlo, ne ha fregati più del poker). Faccio un colpo di telefono al camping – contattato in precedenza - per avvertire che tardo; la signora alla reception sbigottisce alla notizia che li sto raggiungendo in bici, con una giornata così proibitiva. Ogni occasione è propizia per una sosta, una foto, un sorso di acqua, devo dosare le energie altrimenti sono fritto. Ciclisticamente parlando l’apice della difficolta lo raggiungo percorrendo l’istmo che unisce la terraferma a Sant’Antioco: il vento non incontra più alcun ostacolo, e rispetto alla mia direzione di avanzamento è laterale netto. E’ la prima volta in vita mia che sono costretto a pedalare nettamente inclinato a destra per compensare la forza del vento laterale. L'unico guaio è che quando passo accanto a qualche casa o qualsiasi elemento del paesaggio che fa da schermo il vento cala, e mi ritrovo sbilanciato a destra, col rischio di finire per fratte. In questi casi spesso ho un eccesso di reazione dettata dalla tensione, mi raddrizzo istintivamente e di colpo, e così sovracorreggendomi oltre il necessario sbando a sinistra, rischiando un randez-vous con un autocarro. Il centro abitato di Sant’Antioco mi si offre una volta scavallato il mega-ponte avveniristico, sornionamente osservato dal basso dai resti del ponte romano ancora lì presenti. Il vento finalmente mi lascia respirare un po’, bloccato dalle montagne al centro dell’isola. Mi dirigo verso sud, e a colpo d’occhio mi accorgo che non è finita: sono in agguato le salite della parte meridionale, il mio portale di accesso all’agognata méta, oltrepassate le quali si ripresenta il vento, frontale e nuovamente senza ostacoli. Tanto basta a prosciugare tutte le mie energie residue. Percorro gli ultimi chilometri in discesa nel crepuscolo, parlandomi, cercando di rimanere sveglio, facendomi forza da solo. Mi mollo anche una sberla. Arrivo al camping stremato, infreddolito e annebbiato. Mi accascio sul manubrio per cinque, lunghissimi minuti. Ce l’ho fatta e non ci credo. E’ una conquista che significa moltissimo per me, specialmente in una giornata meteorologicamente avversa come questa. So di avere solamente pareggiato, ma ho sfidato un antagonista assai più potente di me, cominciando con un pizzico di divertimento e terminando sull'onda del livore e della cocciutaggine, esattamente nel luogo dove avevo deciso di terminare. Dopo il check-in non muovo neppure la bici, mi vesto caldo e mi infilo direttamente nel ristorante. Pizza, birra e gelato al tiramisù. Buonanotte.

Chilometraggio parziale: 93 km
Chilometraggio totale: 434 km
Velocità media: 15 km/h
Salita cumulata tappa: 1.537 mt
Tempo netto di pedalata: oltre 10 ore
GIORNO 9: 01.06.2010 – Sant’Antioco - Iglesias
Sveglia presto stamattina, alle 06.45. Ma che cavolo, dopo la gitarella di ieri me la posso prendere comoda, e quindi mi alzo alle 8 con moltissima calma. La sera prima mi sono infilato nelle fodere così come mi trovavo, dopo il montaggio della tenda completato alla luce della torcia. Ho infatti trovato una piazzola dopo una lunga ricerca al buio, in un labirinto di siepi che richiama molto da vicino l’ultima scena di “Shining”. Nonostante i fumi della stanchezza ed il vento intenso il montaggio è andato a buon fine, ma è stata l’unica e ultima cosa fatta prima di crollare. Notte ventosissima, tendina sbatacchiata, sonno interrotto a più riprese. Mi addormento un po’ giù di morale, stanco, quasi stufo. Medito di chiudere qui questa esperienza. L’indomani, al risveglio, si vedrà. Mi alzo invece di ottimo umore, con un piccolo accenno di stanchezza residua. Mi avvio quindi alle 10 verso Calasetta, tagliando l’isola lungo l’unico percorso esistente in quella zona, una stradina a fondo misto ben tenuta, che offre bellissimi scorci panoramici attraversando una zona del tutto disabitata. Il vento è ancora fortissimo e spazza tutto, credo che lo scenario rassomigli all’Irlanda, io immagino lo sia dato che non ci sono mai stato. Un coniglietto selvatico mi attraversa la strada, e più avanti una serpe schiva di poco la ruota anteriore. Giunto al porto di Calasetta diretto a Carloforte trovo una notevole coda per l’imbarco. Ad attendere il traghetto trovo anche due altri cicloviaggiatori di Trento, provenienti da Piscinas via San Giovanni Suergiu. Mi raccontano che nel capoluogo tabarkino dal 2 giugno si tiene Girotonno, ovvero la sagra del tonno, specialità ittica nonché risorsa economica locale, che attira ad ogni edizione migliaia di visitatori. Alla biglietteria scopro però che la notevole coda per l’imbarco è dovuta a ben altra ragione: nei giorni di vento forte non è escluso che i traghetti che assicurano i collegamenti dell’altra linea dell’arcipelago, la Portoscuso-Carloforte, sospendano il servizio per motivi di agibilità dei porti. Così la gran parte delle persone dirette a Carloforte opta di raggiungere Calasetta via terra, perché le navi utilizzate qui sono di minore stazza, meno influenzate dal vento, e meno soggette a sospensione del servizio. Sbarcato a Carloforte mi trovo una confortevole panchina sul lungoporto per pranzare, quindi caffè e gelato, dopodiché cazzeggio liberamente per il centro del capoluogo, scattando bellissime fotografie. Sono indeciso se prendere il traghetto delle 15.30 o quello delle 16.25. Dopo essermi accertato che il servizio funzioni scelgo il secondo, cosa che mi costerà cara nel seguito della giornata. A causa del poderoso Maestrale il ferry attracca con buoni 20 minuti di ritardo a Portovesme, alle 17.30. In mattinata ho concordato telefonicamente un incontro alle 18.30 col proprietario di un appartamento a Iglesias, reperito mediante l’organizzazione Albergabici, straconsigliata. Dati gli ultimi sviluppi comincio a temere di non riuscire a stare nei tempi, e ritelefono a Iglesias per avvertire. Sarà solo la prima di una serie di peripezie che movimenteranno il resto del pomeriggio, in mezzo alla tormenta di vento. Per non sapere né leggere né scrivere faccio subito la spesa al primo supermarket, per i due giorni successivi (domani è festivo, più il giorno di sosta pianificato a Piscinas, tappa finale del viaggio). Bello appesantito mi avvio verso Iglesias, senza rinunciare alla strada panoramica che scorre più a ovest della strada diretta. So che la panoramica è interrotta per frana, ma da qualche rassicurante informazione raccolta per strada sembra che sia comunque percorribile dalle bici. Forte di ciò oltrepasso strafottente i massi ciclopici che trovo posti a sbarramento della sede stradale, e mi inoltro verso nord lungo il tratto che scopro ASSOLUTAMENTE panoramico. La natura sta dando un piccolo saggio del proprio potere, la vista spazia senza confine in orizzontale verso ovest, incorniciata in alto da una coltre nuvolosa grigio antracite, e in basso da una distesa di onde spumeggianti e marosi inferociti che si precipitano a colpire la scogliera, una trentina di metri più in basso del ciglio della strada. L’urto violento del mare sulla roccia, combinato con la forza del vento, proietta gli spruzzi fino a me. Dopo svariati chilometri di ammirazione vengo bruscamente richiamato alla realtà da un’immagine tratta da un’incisione di Gustave Doré: l’asfalto è inghiottito da una voragine lunga una cinquantina di metri abbondante, larga quanto la strada e profonda almeno cinque metri, a picco. Percepisco nettamente il fragore prodotto dal frantumarsi di ogni piano, previsione, prospettiva, aspettativa o anche solo intenzione per il resto della giornata, e magari anche per quella successiva. Merda. Cielo nuvoloso con rischio pioggia, vento che non accenna a calare, e io magari comincerei ad essere anche un po’ stanchino. Giro la testa al ciuccio e riprendo in senso inverso, con la poesia oramai svaporata e pressato dal tempo per l’appuntamento col proprietario dell’appartamento, alla ricerca di una variante. Trovo bene indicata la deviazione giusto in corrispondenza del muro di massi di prima. Mi inerpico quindi lungo una sterrata ripidissima e malridotta che sale sul cocuzzolo di un colle spelacchiato, addentrandomi al centro del promontorio. Mi perdo quelle tre-quattro volte in mezzo a una rete di tratturi appena visibili nella macchia mediterranea scossa dal vento, nel tentativo di dirigermi verso la Statale 126 dal lato opposto dell’altura. Il GPS si rivela uno strumento salvavita. Mi aggiro in un panorama completamente disabitato, punteggiato di vetuste installazioni minerarie abbandonate; avverto vicinissime e invisibili intere mute di cani randagi abbaiare, allertate dal mio inusitato passaggio. Per la prima volta in un cicloviaggio me la faccio sotto dalla paura, normalmente non sopporto i cani figurarsi un branco di randagi in un posto isolato. Insane fantasie cominciano ad affiorare alla mia mente, e già mi immagino sbranato e rinvenuto a distanza di giorni. A causa della deviazione inattesa, infatti, nessuno è a conoscenza del percorso che sto facendo, che peraltro non appare usualmente battuto. Sgombro la testa da queste fandonie e cerco di concentrarmi sulla direzione da seguire, un occhio alla mappa, uno al GPS ed entrambi al circondario. Riesco alfine a guadagnare la tanto agognata Statale 126. Nonappena recupero il campo del telefono richiamo il referente dell’appartamento per spiegare la situazione e chiedere maggiori dettagli sul luogo dell’incontro, e scopro che a dare le indicazioni stradali è un vero cane. Nel frattempo, transitando per Bindua, due buontemponi sulla porta di un bar fanno ridere gli amici dandomi del pazzo in dialetto sardo. Estinguo ogni ilarità replicando a tono, e in sardo. Impagabile l’espressione della loro faccia, che tramonta dietro la mia spalla sinistra. Stando alla descrizione fornitami per telefono, mi convinco di avere raggiunto il luogo dell’appuntamento, chiamo il referente e mi metto in paziente attesa. Dieci, quindici, poi venti minuti al vento, e ricevo la chiamata del personaggio che è sul luogo ma non mi trova. Chiarimento sul mio errore di valutazione, nuova descrizione del posto dell’incontro, nuovo appuntamento dopo altri quaranta minuti. Non riesco ad avanzare a più di 15 all’ora. Sopravviene una enorme stanchezza, forse anche frutto dell’adrenalina di prima. Sta facendo buio, anche perché la poca luce che trapela dalla coltre nuvolosa è occlusa dalle alte montagne circostanti. Cercando di interpretare le criptiche indicazioni ricevute sbaglio ancora strada, alla prima svolta mi addentro per tre chilometri verso il centro abitato di Iglesias, quando avrei invece dovuto proseguire lungo la Statale 126, che da quel punto in poi diventa 130. Nuova telefonata, nuovo appuntamento, nuova interminabile salita che – giusto per non farmi mancare nulla - culmina in un tunnel. Finalmente imbrocco il punto giusto poche centinaia di metri dopo il tunnel, il referente mi viene a prendere e mi scorta, lui in auto, verso la casa poco distante lungo una sterrata. In un punto una notevole pozza d’acqua ha prodotto la tipica fanghiglia rossastra di questi luoghi: nel maldestro tentativo di evitarla, così stanco e appesantito dalle scorte per due giorni, urto il terrapieno laterale alla mia sinistra con la borsa anteriore, mi sbilancio e puccio il piede destro nella guazza rossa. Sporco tutto, un disastro. Il ripidissimo vialetto di ingresso alla casa esaurisce le mie ultime forze. L’alloggio però è carino, e soprattutto ampiamente meritato. Il referente è gentilissimo, mi mostra la casa, si trova al piano interrato, è equipaggiata di tutto incluso il microonde, lui abita con la famiglia al piano superiore. Sono le 20.45. Rinuncio al bucato ma non alla doccia. Mentre scarico le cibarie dalle sacche mi avvedo con orrore di avere spezzato il gancio in plastica della sacca anteriore sinistra (quella che ha urtato il terrapieno). Tentando di rimuovere la sacca per studiare il danno ed eventuali soluzioni cede anche la maniglia in tessuto. Minchia. Che altro mi devo attendere? Mi preparo pasta al sugo pronto con olive col mio fornelletto, carne in scatola, mozzarella e insalata mista con pomodori. Sono così stanco che fatico a tenere gli occhi aperti mentre mastico. Finisco la cena in due tappe, i piatti li farò domani. In attesa di chiamare casa traccheggio su FB, ma poi cedo. Una giornata un po’ problematica, ma anche questa è finita nel modo in cui doveva finire. A domani.
Chilometraggio parziale: 52 km
Chilometraggio totale: 486 km
Velocità media: 13 km/h
Salita cumulata tappa: 874 mt
Tempo netto di pedalata: 4 ore
GIORNO 11: 02.06.2010 – Iglesias – Piscinas
Non c’è che dire, dormire in un letto vero fa la sua differenza. Mi sveglio infatti che la stanchezza del giorno prima è del tutto svanita, la notte ha portato seco quella sottile sensazione di scoramento provata negli ultimi giorni. Esattamente come per la cena precedente, anche per la colazione uso il mio armamentario, senza usare nulla della dotazione dell’appartamento, tolto un piatto e un asciugamani in bagno. Smarcata la colazione rimangono da fare i piatti, e senza l’incombenza della tenda e del sacco a pelo riparto alle 09.00. La méta di oggi è Piscinas, ma prima di lasciare la città mi punge vaghezza di visitare la miniera di Monteponi. Rifacco quindi a ritroso la Statale 130/126, compreso il dannato tunnel. Giungo sul posto, ma là dove i cartelli indicano la biglietteria c’è uno spiazzo privo di segni di vita, non solo umana. Dalla telefonata fatta qualche giorno prima alla società di gestione della miniera so che prima visita guidate utile partirà alle 10.30. Mi dispongo quindi all’attesa facendomi un giro per l’installazione mineraria, e dunque salgo lungo la collina le cui viscere sono state per secoli saccheggiate dall’uomo. Alcuni stabili del complesso sono stati ristrutturati, altri sono in stato di totale abbandono, interdetti all’ingresso per sicurezza, circondati da palizzate e recinzioni. Il vero tocco d’atmosfera lo aggiunge il vento, che sibila e fa cigolare vecchie finestre e sovrastrutture. Dopo l’esplorazione torno alla biglietteria, che trovo aperta. Faccio il biglietto, sono il primo del turno delle 10.30, in breve si aggiungono altre persone, la visita alla Galleria Villamarina può cominciare non prima di avere indossato il caschetto bianco di sicurezza. Ci addentriamo in un cunicolo alto due metri, a volte meno, per due di larghezza, ricavato più di un secolo e mezzo fa. E’ umido e buio nonostante l’illuminazione artificiale installata per i giri guidati. Il percorso si snoda a semicerchio, lungo il cammino sono stati allestite piccole aree di dimostrazione delle attrezzature e delle tecniche minerarie. Le spiegazioni della guida sono estremamente esaurienti, anche perché, ci spiega, lui stesso era minatore sino a poco tempo fa in un sito poco distante. La società di gestione delle miniere, infatti, nasce per strenua volontà degli stessi minatori quando, nell’ultimo decennio del secolo scorso, fu decretata la soppressione del comparto minerario in Sardegna. Gli operai allora occuparono le miniere, vivendo per un anno sottoterra, sino a strappare l’accordo nel 2001: le miniere sarebbero state messe in sicurezza, riconvertite in Parco Geominerario con finalità di studio, divulgazione e turismo, ed affidate ad un consorzio che avrebbe assicurato un impiego ai minatori. L’impatto col sottosuolo è claustrofobico: mi concentro sulle spiegazioni fornite dalla guida per non perdere la testa. Fa freddo, e gocciola dalla volta. L’impressione generale è commovente, il pensiero corre a coloro i quali hanno speso un’intera esistenza qua sotto, soffrendo condizioni durissime, pre-sindacali, si sono ammalati, hanno perso la vita. Guadagnamo con sollievo l’uscita, è uscito il sole, il vento è calato, non posso esimermi dal rilevare che gli uccellini cinguettano ignari. Mangio una banana prima di avviarmi per il centro di Iglesias, è già mezzogiorno e mi ripropongo di non fermarmi per un pezzo. Percorro la 126, che comincia a salire con regolarità lungo pendici verdissime e boscose. Il lago formato dalla diga Corsi propone colpi d’occhio verso est estremamente pittoreschi; il pelo dell’acqua è fortemente increspato dal forte vento che in quel punto spira incanalato lungo un crinale montuoso orientato da nordovest. L’effetto è unico, con spuma bianca e vere e proprie onde che si perdono lungo il bacino incastonato tra le boscose pendici delle montagne attorno. La salita si fa sempre più pronunciata, ma non mi impedisce di raggiungere il Passo Genna Bogai dopo qualche decina di chilometri. A giudicare dal vento pazzesco che incontro sul culmine, non fatico ad intuire il motivo di un tale toponimo (genna bogai = porta uscita dai cardini). Per celebrare adeguatamente la prima scalata della giornata, mi fermo alla frazioncina di S.Angelo per il pranzo. Mi appollaio su una panca in pietra presso un comodissimo muretto esposto al sole e riparato dal vento, et voilà, tre tramezzini allo speck, due pomodori e una banana trovano degna fine in circa cinque minuti netti. Le celebrazioni terminano con un caffè e un gelato al bar prospiciente. Il luogo ispira una pace bucolica, niente traffico motorizzato e molta natura. Mentre spolpo lo stecchino del gelato un coppia (lui & lei) di ciclisti tedeschi non esattamente in verde età fanno la loro comparsa salendo dal versante opposto, a nord, in perfetto assetto da strada. Dopo il rituale saluto colgo l’occasione e li consulto per verificare la percorribilità del tratto successivo, che ho letto interrotto per frana. Ne ottengo sufficienti rassicurazioni (che a differenza delle precedenti stavolta sono VERIFICATE e AFFIDABILI), e proseguo lungo la discesa a nord a rotta di collo. Mi concedo una fugacissima diversione dalla picchiata verticale per una visita al sito archeologico del Tempio di Antas, assai suggestivo e adagiato in una valle uscita da un dipinto arcadico. Giusto il tempo di scattare tre foto, giusto per poter dire di esserci stato (con tanto di ingresso a 3 euri, poffarbacco), e riprendo la via. La preannunciata interruzione sulla Statale inizia proprio in corrispondenza del bivio per il Tempio, e cosi da quel punto in poi mi ritrovo a percorrere la lunga, sinuosa, boscosissima e ariosa discesona verso Fluminimaggiore in totale solitudine. In un punto, in occasione di una sosta, scopro il totale silenzio che mi avvolge: l’unico suono di origine umana è il battito delle mie ciglia. Oltrepasso il cantiere per la risistemazione della frana, e mi imbatto nella fine dell’interruzione in corrispondenza del bivio per raggiungere la Grotta di Su Mannau. Mi compiaccio tra me e me per la brilante soluzione: porre rimedio ad una frana e al contempo salvaguardare l’accesso alle due principali (direi le uniche die) attrattive turistiche della zona. All’imbocco dello svincolo per la grotte incrocio una coppia (lei & lui) di cicloviaggiatori in senso inverso: mi sa che sono davvero l’unico ad aver fatto un calcolo errato. Scambiamo due parole: sono di Civitavecchia, e in particolare dei due lui mi pare l’entusiasta e lei quella che sta subendo l’iniziativa.... Ci salutiamo dopo qualche minuto e proseguo verso Fluminimaggiore, con la pendenza che si riduce sino a spianare. L’attraversamento della cittadina avviene praticamente senza fermarmi, eccetto qualche foto ai particolarissimi murales che ornano le mura delle case con trompe l’oeil estremamente realistici. Il tratto in pianura mi aiuta a recuperare le forze per ciò che mi attende in conclusione della giornata: dalla consultazione della mappa e del GPS, infatti, il maggiore impegno della giornata arriva solo adesso. Dopo Fluminimaggiore parte il salitone tanto temuto: dodici chilometri di costante ascesa, lungo il crinale occidentale della valle che sovrasta il Rio Bega. La valle è grossomodo orientata da Nordest a Sudovest, e quindi il vento è schermato dalle alture alla mia sinistra. Lungo la costante e meticolosa ascesa osservo una curiosa peculiarità, già notata altrove su altre strade: una sequenza ininterrotta di catarifrangenti bianchi e rossi giacciono sul bordo della strada, mediamente uno ogni dieci metri. Comincio a racoglierne qualcuno. A dispetto del panorama bucolico vengo sfiorato da parecchi motociclisti e spiderini in vena di penne in curva. Il cielo volge al nuvolo, ma non minaccioso. Fresco. Continuo a salire, curva dopo curva, bevuta dopo bevuta, un catarifrangente dopo l’altro. Il Passo Bidderdi si schiude una volta raggiunti i 468 metri. E’ quasi finita. Rimane da raggiungere il bivio per Piscinas, individuato sulla base dell’esperienza della TranSardinia West 2009. Un’ultimo sforzo in salita, dopodiché seguono dieci chilometri di discesa filata sino al campeggio. Durante il check-in la ragazza al banco mi riconosce, le parlo di questa nuova follia. Mi scelgo con calma & cura un’ampia e confortevole piazzola, stendo cavi e allacciamenti, ma le incombenze del bucato sono rimandate al giorno di sosta di domani. Doccia e pappa con cucina improvvisata ai lavabo, stasera pennette al pesto con abbondante parmigiano, e insalata mista. Al bar prendo appunti sul viaggio in compagnia di un mirtino. Il vento è cessato ma fa fresco. Buonanotte a tutti.
Chilometraggio parziale: 61 km
Chilometraggio totale: 547 km
Velocità media: 13 km/h
Salita cumulata tappa: 1.257 mt
Tempo netto di pedalata: circa 5 ore
GIORNO 11: 03.06.2010 – Giorno di sosta a Piscinas
Sveglia con tutto comodo.
Colazione con flemma anglosassone.
Bucato con calma olimpica.
Dopodiché SPIAGGIA. E’ una splendida giornata di sole, e finalmente il sole non è il solo indiscusso protagonista ma è toranto ad essere un gradevole comprimario. Munito di zainetto, due yogurt, una banana e un litro e mezzo d’acqua, equipaggiato di spray solare e minimicrosalvietta, cellulare e fotocamera, mi avvio a piedi lungo i tre km di sterrato polveroso che portano alla celeberrima spiaggia di Piscinas. C’é un pò di gente, molti motociclisti. Il mare è agitato, violento: il fondale che scoscende immediatamente a riva favorisce la formazione di cavalloni che si infrangono con pericolosa potenza sul brevissimo bagnasciuga. Fottendomene bellamente, poso la mercanzia e vado subito ad inaugurare, nelle mie intenzioni, il primo bagno della stagione. Quasi senza accorgermene, come l’acqua mi sale oltre le ginocchia finisco a testa sotto, travolto da una prima onda. Una seconda a brevissima distanza mi trascina sul fondo, riempiendomi il costume di ghiaia e causando grave nocumento agli zebedej. Una terza immediatamente dopo mi rivolta da sotto in sù, ritrovandomi infine orientato nella direzione da cui arrivavo, col costume foderato di pietre. Pongo pertanto fine all’inglorioso esordio e me ne torno all’asciugamani. Dopo una minuziosa bonifica della ghiaia accumulata, mi asciugo al sole, dò piglio alla crema solare, e mi schiaccio un ricchissimo pisolino. Frugale pranzo, coronato da caffé + gelato al chiosco sulla spiaggia poco lontano. Faccio un giro di cogliendo suggestivi scorci del circondario, compresi i resti dell’attività mineraria.. Il vento ora, nelle ore centrali del giorno, è più vivace, e sospinge le onde con più forza, i cui spruzzi giungono fino a svariate decine di metri dalla battigia. Con una merenda a base di succo di frutta e granita al caffé si conclude la parentesi balneare e rientro al campeggio. Nelle intenzioni c’é di cominciare ad impacchettare tutto per la partenza dell’indomani, l’inizio del ritorno. Ritiro quindi il bucato che il viavai degli ospiti del campeggio non è ancora iniziato. Capelli, doccia, cena. Mentre sono ai lavabi-cucina riconosco una ragazza che assieme al fidanzato hanno visitato la miniera di Monteponi ieri mattina insieme a me. Ci salutiamo, loro due stanno giungendo ora da Buggerru, dove si sono fermati la sera precedente. Scambiamo due chiacchiere e ci diamo appuntamento per un mirto sul tardi. Li raggiungo dopo cena al ristorante del campeggio, con tre giri di mirto ed uno di vino parliamo molto e di tutto: politica società costume turismo lavoro, etc. Ma dopo un pò sento la partenza incombere, e alla buon’ora dell’una e venti li saluto, Licia e Giuliano, buonanotte. Chilometraggio: 0.



 

GIORNO 12: 04.06.2010 – Piscinas-San Gavino Monreale-Porto Torres
Nonostante la serata ad alto tasso alcoolico il sonno è pesante ed il risveglio tonico, ale 06.30. Faccio subito una buona colazione, unico ospite sveglio del campeggio. Anzi, siccome ad ogni mio mivimento mi sembra di provocare un baccano infernale raddoppio l’attenzione. Tutto l’ambaradan della partenza mi porta via comunque due orette abbondanti. Assisto al risveglio del campeggio, e col passaggio delle persone parecchi salutano, molti commentano, tutti fanno i complimenti. Riesco a partire alle 09.30, il target è arrivare almeno a Gonnosfanadiga coi negozi ancora aperti per fare qualche rifornimento. Parto con molta calma, raccolgo fiori per chi mi ha atteso a casa, cerco in particolare un certo arbusto odorosissimo dal tipico aroma, che conferisce una nota olfattiva unica e caratteristica dell’Isola. Ne porto via un rametto, da sniffare nei momenti di nostalgia. Comincio a inerpicarmi per la già nota e bastardissima salita a freddo, ma sento le gambe così così e allora me la prendo comoda. Il vento, adesso che avrebbe una precisa funzione ristoratrice, è cessato del tutto. Il sole a picco mi fa maledire i giorni scorsi, passati a lottare controvento e contro il freddo. Le spalle mi bruciano, scottate dal giorno prima, per non parlare delle mie gambe. Arrivo al culmine della scalata, da questo punto in poi sarà tutta discesa fino alla stazione. 350 metri di dislivello in dieci km magari non sono molti, ma la pendenza in alcuni tratti è davvero notevole. Scendo in direzione nord lungo la 126, lasciata due giorni prima. Sto puntando a ritrovare l’intersezione he mi fu insegnata l’anno precedente di ragazzi incontrati per caso in questa stessa zona al termine della TSWC 2009. Ho infatti memorizzato sul GPS il tracciato della scorciatoia che mi consentirà di evitare Guspini e scendere direttamente su Gonnosfanadiga. Come Pollicino ripercorro tutti i punti della volta scorsa, e arrivo a Gonnoseccetera verso le 11. Spesa ad un discount, quindi per fare bancomat mi incasino per le strade del centro. Faccio un paio di giri dell’oca, infilo due contromano, ma alla fine riprendo la retta via. Lasciando il paese faccio anche in tempo ad assistere ad una mirabile collisione tra due auto, 100 metri davanti a me. La classica commistione di disattenzione da una parte (uscire da una strada laterale senza guardare) e coglionaggine dall’altra (andare troppo veloce per potersi fermare in tempo in caso di imprevisti) produce sempre i propri effetti, e l’auto che sta uscendo taglia la strada all’auto che sopraggiunge; l’urto è inevitabile, e per effetto manda in testacoda la prima, e fa sbandare a destra la seconda, che si ferma contro un albero. Fendo con strafottente noncuranza il teatro della tragedia, evitando i rottami sparsi per la sede stradale, proprio nel momento in cui i maghi del volante stanno scendendo dai loro destrieri azzoppati, e cominciano le rimostranze. Mi verrebbe da fermarmi e riempirli di pedate in culo a entrambi (uno dei due, il disattento, è una signora), mi sale una rabbia feroce. Dopo qualche secondo penso a cosa sarebbe accaduto se mi fossi trovato 100 metri più avanti al momento dell’urto (probabilmente sarei stato travolto dall’auto che ha sbandato a destra), a quanto mi sarei trovato ad essere vulnerabile e indifendibile, e quindi mi incazzo definitivamente. Sulla scorta del picco di adrenalina comincio a martellare sui pedali e a macinare la strada, piatta, rettilinea e arroventata, che scende nel cuore della piana del Campidano. Il granaio della Sardegna si apre alla mia vista, ampio e senza un dislivello, punteggiato di pale eoliche alla mia sinistra, verso nord. Purtroppo molta della mia attenzione è dedicata a non portare troppo la traiettoria verso il centro della strada, perché percorsa a velocità semplicemente folle da chi subisce il fascino di un bel rettifilo piatto, lungo e sostanzialmente deserto, tolto un deficiente che sta perdendo il proprio tempo trascinandosi dietro un paio di decine di chili di mercanzia su una bici. Arrivato finalmente alla tanto agognata stazione ferroviaria di San Gavino Monreale non faccio in tempo a godermi i frutti della scampagnata di 42 km appena conclusa: il bigliettaio mi riferisce che il servizio ferroviario è interrotto a Chilivani, e che la tratta fino a Sassari è servita col bus. Mi avverte anche che, a causa di questo, non è affato certo che io riesca a caricare la bici sull’autobus, dipende dall’autista, da quanti passeggeri ci sono, da quanto bagaglio bisogna caricare, etc. A rendere ancor più fosche le tinte del quadro l’ineffabile personaggio soggiunge che ad Oristano bisogna pure cambiare treno. E allora, senza freni, comincio a dare i numeri in pubblico. Poi mi calmo, mi scuso molto, e faccio il biglietto almeno fino a Chilivani, poi si vedrà. Giusto per rimettere le cose nella giusta prospettiva, e per riordinare le idee sul da farsi, mangio. Lo stomaco pieno mi infonde un pò di filosofia, in fondo cosa pretendo? Non l’ho mica scelto io un viaggio in bici? Anche questo fa parte del pacco regalo, insieme al Maestrale contrario, alla pioggia, alla polvere, al caldo, alle scottature, alla fatica, agli automobilisti stronzi e a tutto il resto. Una volta sul treno trovo altri due attempati cicloviaggiatori veneti, stanno tornando a Olbia per imbarcarsi per Livorno dove hanno lasciato l’auto. Il loro giro è cominciato in Corsica, e sono scesi per Bonifacio e la Gallura. uno di loro, dotato di smartphone, mi aiuta a elaborare un piano B, che mi vedrebbe proseguire per Olbia e imbarcarmi per Livorno. La soluzione ci sarebbe, ma alla fine scelgo di mantenere il proposito iniziale, forte anche delle rassicurazioni datemi dal capotreno sull’ampia possibilità di stivare la bici sul bus. Quest’ultimo, arrivati a Chilivani, giunge in cinque minuti: la gente non è poi troppa, i bagagli non sono molti, lo spazio c’é e la bike ci sta addirittura in verticale!!! Il trasbordo a Sassari è un pò più accidentato, la bici non ne vuole sapere di stare in piedi mentre la carico, e quasi rischio di perdere il trenino. In un quarto d’ora siamo a Porto Torres, con una veloce pedalata sino alla stazione marittima mi procuro il biglietto e via verso l’imbarco. Con tutta calma prelevo quano mi serve per il pernottamento e lo sostemo nella sacca-zaino superiore. Ritrovo il mio solito posticino in sala poltrone, a qualche metro c’è una coppia che armeggia col caricabatteria del cellulare. Mi viene in mente di usare la presa multipla, glielo dico, e scendo nuovamente alla bici per prelevarla. Ma una volta tornato da loro l’innesto non è della grandeza giusta, e quindi nulla. Un rapido sopralluogo ai bagni e scopro che le docce funzionano, e hanno anche nientepopòdimenoché l’acqua calda. Sono elettrizzato come un bambino alle giostre, un altro pò e mi metto a saltare. E’ un piccolo segreto, questo, che custodisco gelosamente, perché a quanto pare nessuno si è mai accorto della presenza di queste docce, e anche qualora accada, sono pressoché inutilizzate pertanto quasi immacolate. Con una seconda incursione in garage mi procuro il telo per asciugarmi. Mi introduco con tutto il necessaire nella stanza da doccia, la porta ha addirittura il chiavistello funzionante. Assaporo e gioisco lungamente di ogni singola goccia di acqua calda, che mi ripaga di tanto sforzo. Non c’é nulla da fare, è così: il bisogno aguzza l’ingegno e il mondo appare assai diverso se osservato con lo sguardo del cicloviaggiatore. Frappone molti ostacoli, ma offre anche nuove e differenti opportunità. Grazie al lavacro mi riprendo del tutto, veloce puntatina sul ponte per assistere alla partenza del traghetto, quindi cena. Ma definire semplicisticamente “cena” il banchetto da sposalizio dei re che ne segue è puro eufemismo. Con un sapiente tocco di prestidigitazione faccio sparire nello stomaco, nell’ordine:
1. penne al pomodoro con abbondante formaggio;
2. generoso hamburger con salsa di peperoni;
3. abbondanti patatine fritte;
4. insalata mista;
5 . un quarto di ananas;
6. una fetta di torta;
7. una birra.
Burp.
Tornato al giaciglio propongo un mirtino ai ragazzi della presa multipla. Facciamo così due chiacchere coi bicchieri davanti: sono due laureati in Storia e Filosofia, purtroppo ancora senza impiego regolare nonstante un master in insegnamento. Sono stati da amici a Santa Teresa di Gallura, a studiare per un concorso. Che coraggio... ma è per il loro futuro. Come i bicchieri si vuotano, saluti di rito. Buonanotte.
Chilometraggio parziale: 42 km
Chilometraggio totale: 589 km
Velocità media: 17 km/h
Salita cumulata tappa: 600 mt
GIORNO 13: 05.06.2010 – Genova-Casa
Nottata da manuale, ho dormito come un bimbo. Mi sveglio da solo qualche minuto prima dell’annuncio delle 06.30, mi catapulto fuori del sacco a pelo che l’altoparlante non ha ancora finito di altoparlare. Sono il secondo a fare colazione, in una caffetteria ancora deserta. Colazione luculliana e poi tutti su per le pratiche del mattino. Dei due ragazzi della sera prima, Anna e Luca, solo lei è già in piedi. Io mi metto in santa pace a scrivere i miei appunti in attesa dell’attracco. Scendo a preparare la bici col garage ancora vuoto. Nonostante ciò sarò l’ultimo passeggero a sbarcare. Mediante una delle diavolerie moderne di voi occidentali (la connessione internet dallo smartphone), dopo colazione ho verificato che il primo treno utile è alle 11.25, e così non ho fretta. Mi dirigo perciò verso la Darsena e L’Acquario, è una bella giornata e fa già caldo. Attorno al Museo del Mare si vede già gente, molti sono crocieristi della MSC presente in porto, un autentico palazzo galleggiante tutto bianco. Prendo un cappucino di fronte alla Darsena, poi compro una bottiglia d’acqua ad un discount. Bivacco per un piccolo intervento alla bici sul ponte di chiatte in fondo al molo dell’Acquario. Il viavai di turisti del weekend si è già messo in moto alla grande. I battelli del giro guidato del porto partono carichi di visitatori, così come le imbarcazioni dei vari diving centers. Come accenno a ripartire un attempato signore, da una panchina a breve distanza, mi interpella con voce stentorea e cadenza lenta: “Parli italiano?”. Si materializza in quell’istante la prova provata di quanto sia inusuale per la nostra scalcagnata italica mentalità quadratica media il solo concetto di una vacanza in bicicletta. In ogni caso mi trattengo a discorrere col tizio, e a rispondere con piacere alle sue tantissime domande. Anche lui è incuriosito, vuole sapere dove vado, da dove vengo, di dove sono, e quanto prende all’ora lo psichiatra che mi ha in cura. Condivide con me parecchi retroscena del porto di Genova, della sua storia, in particolare del precedente assetto che consentiva all’ammiraglia della flotta Reale di attraccare ad una postazione lastricata di piastrelle azzurre, e far sbarcare il regale passeggero su una pensilina collegata direttamente col Palazzo Reale senza che il nobiluomo dovesse calarsi nella popolazione. Mi rivela che i resti della piastrellatura sono stati rinvenuti intatti nonostante il bombardamenteo del porto, e devono essere visibili da qualche parte. Prendo congedo che mi fa ancora molti complimenti per l’idea e per il coraggio, e mi avvio verso la temutissima stazione di Piazza Principe, terrore di ogni cicloviaggiatore. Il luogo non è cambiato di una virgola, con tutto ciò che comporta in termini di scale insidiose e saliscendi ad alto rischio. Litigo con la macchinetta automatica dei biglietti, mi scontro con l’ascensore che non funziona, e allora non mi rimane che prendere un bel respiro, contare fino a centomila, concentrarmi, e tuffarmi nel delirio: smonto le sacche in cima alle scale, le porto giù dalle scale con un occhio alla bici, risalgo le scale con un occhio alle sacche e uno alla bici, carico la bici in spalla e la porto giù dalle scale, ricarico le sacche sulla bici e avanzo fino alla prossima scala attraverso l’atrio principale. Rieseguo il balletto con lo zaino in spalla e scendo nel sottopassaggio che porta al famosissimo binario 17 (nomen est omen). Per salire al piano del binario compio le operazioni in senso inverso, ma sempre basandomi sul fatto che la bici è da una parte e le sacche dall’altra, e devo avere occhi per entrambe nei momenti di salita e discesa, ma il gioco è fatto. L’Associazione Italiana Ortopedici ringrazia per il prezioso contributo prestato come cavia. Attendo il treno con uno spuntino, caricare poi la bici a bordo, data l’esperienza dell’ultimo quarto d’ora, è poco praticamente uno scherzetto. Scendo a Pavia alle 13, e per attraversare il binario chiedo aiuto alla Polfer. Ringrazio sentitamente e mi avvio lungo il centro della città. Sul vialone alberato del Castello mi fermo ad una panchina e pranzo con insalata di tonno e mais. Mi prendo la libertà di fregarmene altamente degli sguardi vagamente infastiditi, tuttalpiù indifferenti, dei passanti. Riparto come un treno e copro i 23 km sino a casa in 45 minuti. Passo prima dai miei per una foto ricordo. Il viaggio è terminato, ma come ogni esperienza fruttuosa, contiene in sé il seme del viaggio successivo, in un continuo ciclo di rigenerazione e arricchimento.
Chilometraggio parziale: 23 km
Velocità media: 22 km/h
Tempo pedalato: 1 ora.
Chilometraggio totale: 612 km
Salita cumulata totale: 6.161 mt.
Le foto del viaggio sono disponibili QUI