martedì 30 agosto 2011

TRANSARDINIA WEST COAST - 24.05/01.06.2009


Un sogno cullato per anni, direi tre lustri abbondanti.

Questa può essere, in estrema sintesi, la definizione del viaggio compiuto nella primavera del 2009, 371 km da Porto Torres a S.Gavino Monreale lungo la Costa Ovest della Sardegna. Un’esperienza scaturita dalla voglia di scoprire nuovi significati di quell’isola nel cui granito affondano le mie radici. Infatti in molti di quei luoghi ero già stato in passato, e molte delle esperienze le avevo già vissute, a volte fin da bambino, ma in modo differente: un imbarco su un traghetto per me non ha più alcun segreto, i porti di Genova e Porto Torres sono l’anticamera di casa mia, tanto da poter citare edifici e luoghi non più esistenti perché inghiottiti dalle trasformazioni di tutti questi anni. Date tali premesse, a fare la differenza - e quale differenza - è stata quindi unicamente la voglia di buttarmi in pista e misurarmi con me stesso, affidandomi alle mie sole gambe e al mio spirito di adattamento, in totale autonomia. Per per essere più flessibile e risparmiare qualche quattrino (che non fa mai male) ho scelto di portarmi l’attrezzatura per campeggiare, basandomi sulla percorrenza giornaliera consentitami dalle mie sole forze. I lunghissimi mesi invernali passati a rivedere il tragitto, esplorarlo in anteprima con Google Earth (formidabile strumento), pronosticarne le pendenze, immaginando scenari ed orizzonti, memorizzando punti di riferimento, raccogliendo minuziosi dettagli, informazioni sugli alloggi, pianificando possibili rotte alternative, tutto questo mi ha consentito di minimizzare l’impatto di eventuali imprevisti e di massimizzare il vantaggio logistico, a tutto beneficio della purezza del viaggio, sgravato da molti pensieri e valutazioni di ordine pratico. Ne è scaturita un’esperienza che ha stravolto luoghi così ben conosciuti, ritmi che credevo di conoscere, atmosfere a me così familiari, tingendole di  nuove ampliate pulsazioni, sensazioni, percezioni.

Questo è il racconto di qualcosa da me mai vissuto prima.

Ma soprattutto è il racconto di qualcosa dopo il quale nulla sarebbe rimasto com’era.

GIORNO 1 - 24.05.2009 - Casa/Genova

Sulla scorta delle copiosissime informazioni, trucchi, dritte & suggerimenti scaricati da Internet, nelle settimane precedenti la partenza ho selezionato il materiale necessario. Come nella migliore delle tradizioni cicloturistiche, nonostante tre tornate di sfoltimento la mercanzìa al seguito si rivelerà comunque essere eccedente la bisogna. Mi riprometto di fare buon uso di quest’errore per il futuro. Il 24 maggio 2009 è una Domenica, giorno scelto appositamente per evitare problemi dovuti al traffico sulle strade. Non mi va di alimentare il già conclamato conflitto tra auto e biciclette, e neppure le statistiche sulla mortalità stradale.

Parto da casa alle 15.10, sotto un sole carogna, masticando in sottofondo interrogativi vari che riescono ad affiorare oltre la spessa coltre di entusiasmo. Come al solito la ventilazione creata dal moto della bici modera la calura (un fenomeno che ogni volta mi trovo a descrivere con rinnovata curiosità verso l’altrui stupore: andare in bici tiene fresco d’estate e tiene caldo d’inverno, sembra elementare, ma per credere all’efficacia di un tale sistema lo si deve prima vivere...). Alla prima svolta nelle campagne alla ricerca di strade poco battute il mio HAL9000, il mio faro nella notte, il ricettacolo di ogni sicurezza, il mio navigatore totale Garmin GPSMap 60CSx, acquistato solo un mese prima, dà miseramente i numeri, non riconoscendo alcuni dei punti programmati e spedendomi lungo una rotta non proprio esente da traffico. E’ solo il primo di una serie di piccoli accidenti mappocartografici, dovuti alla mia inesperienza nel gestire mappe, rotte e procedure di caricamento. Ma il peggio sarebbe arrivato più avanti. Fatto sta che sùbito dopo finisco sulla provinciale. Con una provvida diversione dopo pochi chilometri mi assicuro la sopravvivivenza sino a Pavia, per strade secondarie. Mentre sono fermo ad un semaforo in attesa di attraversare la tangenziale, riscuoto simpatia in un attempatissimo signore su una macilenta Vespa bianca. Palesemente convinto nella mia nazionalità straniera, come scatta il verde il vegliardo,  con insospettata vivacità, mi incita a ripartire con toni da Grand Boucle. Per completare la scena mancherebbe un effetto sonoro tipo trombetta a gas, oppure il campanaccio da mucca valligiana.
Sperimento così per la prima volta un atteggiamento che rivedrò spesso lungo i miei viaggi: una generica simpatia da parte delle persone, che in taluni casi si spingerà all’autentico tifo, se non addirittura soccorso materiale. Soprattutto è evidente nel prossimo l’immediata convinzione che un cristiano che intraprenda un tal genere di viaggio non possa CATEGORICAMENTE essere italiano, con effetti esilaranti: persone che mi salutano direttamente in un inglese caciottar-pecoreccio, oppure in italiano ma parlato più lentamente e ad alta voce (come stessero appunto parlando ad uno straniero, o a un deficiente).
Una volta alla stazione di PV mi metto in coda per il biglietto, affiancato dal mio mulo verde, sotto gli sguardi a dir poco straniti degli astanti (terzo genere di reazione ottenuta da chi viaggia in bicicletta, il quarto è il fastidio sic et simpliciter). Raggiungo il binario seguendo le indicazioni del Capostazione, al quale domando anche a quale altezza della banchina mi debba piazzare per trovare la carrozza bici una volta che il treno sarà fermo. La risposta giunge dopo un breve conciliabolo telefonico con il Capotreno a bordo del convoglio in arrivo, e mi posiziono di conseguenza. Il treno arriva, mi trovo pronto al punto giusto, isso con molta fatica la bici (comincio a pagare la sovrabbondanza del carico), entro e... ORRORE: scopro che la sistemazione nella pilotina è del tipo a gancio, con le bici appese in verticale. Nelle mie condizioni rischio di strappare la forcella sotto il peso del bagaglio, o quantomeno di deformarla seriamente. Presento le mie rimostranze al Capotreno sull’impossibilità di seguire lo stivaggio previsto, generando crescente disappunto nel personaggio. Fanno quindi la loro comparsa dal nulla sei scout con bici al seguito. Il nervosismo pervade gli animi a causa del caos che ne consegue, e relativo ritardo sulla partenza del convoglio. Il Capotreno implora pietà con lo sguardo. Con un pò di buonsenso da parte di tutti la situazione è adeguatamente governata, con le sette bici addossate l’una sull’altra ai due lati della pilotina, ed il viaggio può ripartire sebbene con 5 minuti di ritardo. Scambio quattro chiacchiere con gli scout: sono un gruppo di Genova che hanno trascorso il weekend a Pavia in bici, sormontati da giganteschi zaini da escursione in quota, contro ogni ortodossìa cicloturistica. Infatti hanno accusato il colpo, soprattutto per le temperature quasi estive degli ultimi due giorni. Li lascio pertanto decantare e mi defilo. L’arrivo a Genova è degno della migliore commedia all’italiana, roba da Pasquale Ametrano, l’emigrato di Carlo Verdone che torna per le elezioni, per intenderci. Il binario di arrivo dei treni lungo la linea da/per Pavia è il numero 17, quindi assai lontano dalla stazione principale di Piazza Principe: l’unica maniera di raggiungere quest’ultima è attraverso le scale, vale a dire un dedalo di budelli sotterranei scaturito dal peggiore incubo di Escher. Paventando complicazioni di ordine ortopedico/traumatologico qualora dovessi cadere dalle scale reggendo 30 kg di bici, tento senza molta convinzione di accedere all’ascensore, che infatti non dà segni di vita e si dimostra essere un’installazione artistica sul tema del post-modernismo ferroviario. Non voglio incorrere in una reprimenda da parte della Polfer per un attraversamento pirata dei binari, né peraltro sarei il tipo, anche perché con bici al seguito non sarei abbastanza agile da schivare un eventuale Intercity in transito. Insceno pertanto la mia migliore interpretazione strappacuore col primo ferroviere che capita a tiro. Questi, impietosito, mi scorta lungo un passaggio di servizio che taglia il fascio di binari verso il tanto agognato Binario 1, ben accorto a farmi pesare il favore come uno strappo alla regola, che anche lui potrebbe essere richiamato dalla Polfer, perderebbe il posto, tiene famiglia, gli mancano cinque anni alla pensione, etc etc etc. Una volta approdato dal lato delle mie più sfrenate fantasie, riesco ad eludere le rimanenti scalinate dell’atrio centrale, nonché qualche decina di telecamere di sorveglianza, infilandomi con rilassata faccia da culo in un’uscita riservata al personale addetto che dà direttamente sullo stradone verso il porto. Vaf§@#*ulo a tutti, architetti sciroccati, Polfer e Trenitalia. Il tragitto per l’imbarco attraverso il porto riproduce in scala reale i sotterranei di Dungeons & Dragons, irto di passaggi vietati, guardiole ben sorvegliate e cancellate appuntite, dal quale riesco ad evadere dopo un buon numero di tentativi sbagliati sotto gli immancabili sguardi di scherno dei camalli in pausa-sigaretta. Imbrocco alfine la strada giusta e  giungo alla Stazione Marittima, ma solo per accorgermi di non sapere dove lasciare la bici. La biglietteria è ad un piano sopraelevato rispetto al livello della strada, privo di accessi regolamentari per le bici. Con un’azione diversiva ai fianchi dribblo due guardie giurate, e riesco a  raggiungere il piano sopraelevato con l’ascensore, infilando la bici in diagonale. Un terzo sorvegliante sbigottisce per l’improvvida apparizione potenzialmente foriera di seccature, dopodiché in effetti si secca per l’imprevisto. Mi interroga bruscamente sul come abbia fatto ad arrivare sin lì con la bici, forse ipotizzando la violazione di una dozzina assortita di articoli tra Codice Penale, Codice Civile e Codice Stradale. Confesso tutto sulla barba del Profeta, e ancora in piena verve teatrale con un altro pezzo strappalacrime gli rifilo la bici da sorvegliare mentre io faccio il biglietto, e vaf§@#*ulo pure a lui. Allo sportello Grandi Navi Veloci apprendo non senza sgomento dall’addetto alla biglietteria che i posti in offerta ad 1 Euro, previsti dalla mia certosina pianificazione internettiana, semplicemente non esistono né sono mai esistiti, ed il passaggio ponte costa 50 Euri. Stando al tono ed all’espressione ironicamente stupefatta l’ineffabile mezzobusto sottovetro deve sospettare una qualche mia bizzarrìa mentale, però socialmente innocua (“ma pensa te questo qui cosa si è inventato… 1 euro… ma vai a lavorare”). Per completezza di informazione riesco anche a sapere che non esiste a bordo delle navi Grimaldi una doccia collettiva, che invece so per certo esistere sulla Tirrenia. Rivaf§@#*ulo pure alle GNV, e mi butto nelle braccia della cara, ma soprattutto vecchia Tirrenia. Recupero la bici sventolando ostentatamente il biglietto sotto il naso della guardia, che ringrazio sentitamente. Dopo avere incassato il tifo divertito dell’addetto al check-in, che in mancanza del classico parabrezza mi appiccica con una manata il tagliando adesivo di imbarco direttamente sul casco, sosto finalmente sul piazzale in nutritissima compagnia. Trovo infatti molti motociclisti, alcuni dei quali mi guardano con un misto di compassione e sprezzo (quinto tipo di reazione all’indirizzo dei cicloviaggiatori, ma esclusivo dei sedicenti “cugini”). Ottengo anche il supporto degli addetti alla rampa di accesso alla nave, che mi spronano con bizze partenopee profferite a gran voce lungo tutta la scalata che porta al parcheggio superiore. Lego non senza peripezie la biga, col sottile timore di trovarla saccheggiata l’indomani mattina e pressato dalla fretta di accaparrarmi un bel posto dove stendere il sacco a pelo. Nonostante abbia già predisposto il necessario per passare la notte nella sacca-zaino superiore, in modo da non perdere molto tempo, sono così frenetico che addirittura mi innervosisco perché sento che mi sto attardando. L’ingresso dal garage nell’area passeggeri del traghetto in calzoncini da ciclista, caschetto in mano e zaino in spalla - senza avere parcheggiato un’auto - è un’esperienza dal sapore nuovo, che trovo tuttora indescrivibile. Trovo un posticino decente e installo il giaciglio per la notte, premurandomi di occupare quanto più spazio possibile, e già pregustando il vaporoso ristoro della tanto agognata doccia, il mio segreto ignorato dai più, che mi è valso la scelta della Tirrenia a scapito delle GNV. Ma ahimé l’abluzione si trasforma in supplizio, causa mancanza di acqua calda. Immancabile il consueto rito della partenza della nave dal settore poppiero del ponte esterno più alto. Altrimenti il viaggio è come se non cominciasse. Telefonate di saluto, panini, gelato, appunti. Buonanotte.

Percorrenza: casa-stazione PV 19.5 km

GIORNO 2 - 25.05.2009 - Porto Torres-Alghero

Navigazione senza storia, sonno così così, sarà l’adrenalina  per l’avventura che comincia, oppure la sciabolata della doccia fredda. Toelette, colazione da campione bulimico, sbarco alle 08.10. Faccio tappa in centro a Porto Torres per rifornirmi di acqua e frutta. Mi nasce dentro la fortissima sensazione di stare in un certo modo riscrivendo intere parti della mia storia personale, o meglio di stare ritoccandola, come se un pittore aggiungesse dettagli ad un dipinto già concluso anni prima, senza cancellare nulla, ma solo arricchendolo. Porto Torres è infatti luogo a me arcinoto, ma ora, da solo e in bici, in piena libertà, unico motore di me stesso, è tutt’altro. Addirittura il tempo comincia a scorrere in modo differente. Luogo e contesto in questo modo si scindono, e si scinderanno ancora e sempre più mano a mano che il viaggio si svilupperà. Sto aprendo una cerniera, lasciando entrare nuova luce. Scopro quasi subito che il mio HAL9000, la mia Stella Polare, lo scrigno di ogni riferimento geografico, il mio navigatore totale Garmin GPSMap 60CSx, acquistato solo un mese prima, è praticamente inservibile. Imberbe e implume novizio dei sotterfugi mappocartografici, al momento di memorizzare nel dispositivo le mappe del viaggio non mi sono avveduto di avere cancellato la pianificazione in terra sarda, sovrapponendola con quella - ben più prosaica - che da casa mi ha portato alla stazione di Pavia. Ne ottengo un  miserrimo e inespressivo schermo bianco, con un tristo cursore che pencola nel nulla, privo di topografia e insensibile alla poesia dell’avventura. Bestemmio silenziosamente per buoni due minuti, vorrà dire che mi limiterò a usarlo come registratore di traccia. Da questo momento in poi torno alle esplorazioni ottocentesche alla scoperta delle sorgenti del Nilo, e affido la navigazione alla mappa del Touring 1:200.000, opera a dir poco eccezionale, in bella mostra nella tasca trasparente appesa al manubrio supplementare incaricato vieppiù di reggere l’inane GPS, il ciclocomputer e all’occorrenza due fanali alogeni. Alle 09.45 sono già a Pozzo San Nicola, in un tratto quasi senza storia, tolto un tizio in senso contrario che va in delirio alla mia vista e quasi fonde il clacson del suo malandato furgone rosso incitandomi a non fermarmi. Qualche saliscendi poco pronunciato in mezzo ad una natura a dir poco rigogliosa fanno da contrappunto al mio ritmico procedere.

Mi coglie imperitura una considerazione: la Sardegna, quella vera, genuina, non la si vede d’estate. E’ meglio che lo si sappia, tutti. Ciò che il vetusto schema italiota “vacanza-solamente-in-estate” vi concede di (intra)vedere, signori miei, non è la Sardegna. Per rimanere stupefatti, basiti, meravigliati, e sbigottire come bambini, dovete conoscere la Sardegna in primavera. Questa terra, in primavera, non è ancora riarsa dal sole e disseccata dall’abbandono delle coltivazioni e dall’incuria umana. Questa terra, in primavera, non è ancora vilipesa dal tramestìo stagionale di villeggianti un-tanto-al-chilo che colonizzano l’Isola poche settimane alla volta, lasciando in eredità sterili e nocivi cubicoli in cemento. Questa terra, in primavera, vi accoglie con un placido tripudio sensoriale. Colori della flora che vivono per un solo mese, per poi lasciare il posto ai frutti, il cui sapore irripetibile porta al palato millenni di storia naturale, roba da farsi beffe di musei ed esposizioni, basterebbe andare dal fruttivendolo giusto, al momento giusto. In primavera impera il verde, in netta contrapposizione al giallo-secco delle stoppie, principale nota cromatica estiva. Il suolo gioisce delle piogge primaverili, restituendone un bouquet di essenze che schiere di profumieri parigini non riuscirebbero neppure pallidamente a scimmiottare, dovessero campare cent’anni. La popolazione è ancora padrona a casa propria, ma già presaga dell’imminente invasione estivo-vacanziera dal duplice effetto: da una parte volano economico dell’Isola, dall’altra il depauperamento delle sue risorse, principalmente costiere, in una corsa non già a sviluppare strutture ricettive di uso collettivo (come ad esempio sarebbe un hotel, che consente di fare vacanze senza sbancare ettari di coste), bensì a riaffermare il dominio della roba, ossìa la casetta al mare mia-tutta-mia-solamente-mia. Da lasciare chiusa per dieci mesi l’anno, ma un cazzotto negli occhi per tutti i 365 giorni.

I Sardi, in primavera, non ti trattano come un turista, ma come un gradito ospite, qualcuno che passa di qua per scelta di vita, non trascinato sotto ipnosi dall’indolente tran-tran della villeggiatura estiva, e che pertanto è percepito più vicino, più umano, meno rapace. Chi è Sardo sente queste cose, chi invece i Sardi li conosce capisce cosa intendo. Chi invece non li conosce, vada ad informarsi direttamente in loco, ma solo da Aprile a metà Giugno e non oltre, mi raccomando.

A Pozzo San Nicola faccio tappa per la seconda colazione, ad un emporio cento metri più avanti prendo un panino per pranzo. La negoziante mi esprime tutta la propria curiosità sul viavai di ciclisti degli ultimi giorni. Le spiego che Maggio è uno dei mesi prediletti per clima, prezzi e disponibilità di spazi fuori dalla stagione turistica. Riprendo il cammino, mi tolgo la maglia, nonostante il cielo velato ed il venticello appena appena fresco comincia a fare un moderato calduccio. Praticamente le condizioni IDEALI per scottarsi... Mi addentro nella Nurra settentrionale, verso Palmàdula, dolci ondulazioni e natura rigogliosa. Incontro pochissima gente. I motociclisti quasi immancabilmente salutano il cuginetto a pedali. E’ questo un piccolo cenno di umanità tra persone che condividono un’idea di movimento e libertà che rivedrò spessissimo lungo tutto il viaggio. Può sembrare banale e scontato, ma un pollice in sù da parte di chi ti incrocia mentre arranchi su un’erta infuocata, o controvento - spesso accompagnato da un sorriso, o un cenno della testa, se non da vere e proprie incitazioni o saluti nelle tante lingue - può fare la differenza in momenti in cui il morale e la tenuta mentale determinano molto della forza che riesci ad applicare sui pedali, e la costanza nell’applicarla. A Palmàdula devio a ovest, verso l’Argentiera. Una bella e ininterotta discesa panoramica lungo un’apertura nell’alta costa, porta dai 144 metri di altitudine del paese direttamente alla spiaggia. La strada è scorrevole, la discesa è gustosa, ma comincio ad intuire un inquietante presagio circa la risalita che mi aspetta lungo quella stessa strada, nel pomeriggio. Porto Palmas, ore 12.00: telo azzurro steso sulla sabbia, biki legata all’ombra, costume, bagno, panino, banane, acqua. Mezz’oretta di molle oblìo sotto il sole. Verso le 13 avverto odore di polpo arrosto: sono io che sto per prendere fuoco. Il sole si è messo a picchiare duro, fa troppo caldo e non mi va di rovinarmi subito. Mi rifugio all’ombra di un pergolato del baretto sulla spiaggia, chiuso perché è lunedì. Cincischio sonnecchioso oscillando lentamente in equilibrio su una sedia fino alle 14.30, mi cambio, ricarico tutto, Polase per endovena e ripartenza ore 15 più o meno. L’intuizione avuta prima dell’arrivo si rivela di una precisione cartesiana: fino a Palmàdula ora sono 6 km di salita non tanto cattiva, però sotto il sole e senza vento. E comunque è la mia prima salita sotto carico. Attingo da un selezionatissimo repertorio di bestemmie in turkmeno antico, roba da intenditori. Ma la vera spinta motivazionale, come già accennato, arriva inaspettata da un motorbiker solitario che spunta dal nulla e mi indirizza un pollice in alto, accompagnato da un sorriso e da un’espressione di incitamento. Mi basta per bermi la salita rimanente. Questo era il primo esame per gambe e fiato, e mi sento di averlo passato. Ritornato al paese mi fermo per caffé e scorta di acqua. Altro Polase e via. Rotolo verso Sud (copyright Negrita) lungo un pittoresco vallone erboso, fiorito, boscoso e totalmente disabitato. Per un paio di decine di chilometri costituisco la sola forma di vita umana. Sono felice di far parte del paesaggio, senza limitarmi ad osservarlo. Giunto al bivio di S. Maria La Palma propendo per una digressione ad ovest, verso la Baia di Porto Conte, passando per Torre del Porticciolo e la Pineta di Mugoni. Medito un secondo esame... Nel frattempo un iniziale leggero languorino si tramuta repentinamente in una voragine nello stomaco, che strepita per essere richiusa. Meglio non esagerare, non sono ansioso di provare l’ebbrezza di una crisi ipoglicemica sui pedali. Accosto, mi servo di un paracarro per tenere la bici in piedi, banane, altro Polase, e via. Più avanti il secondo Gran Premio della Montagna di oggi arriva al termine del dislivello che da Porto Conte sale al Nuraghe Palmavera, oltrepassato il quale c’é la discesa verso Fertilia dunque Alghero. Un pendìo traditore, in due strappi a pendenza crescente, il primo dei quali ti inganna travestito da pacioso e innocuo falsopiano, per lasciare repentinamente posto ad una specie di rampa di decollo da portaerei, di cui è addirittura nettamente percepibile la curvatura verso l’alto a bordo strada. La terza liturgìa di bestemmie in sanscrito moderno che accompagna l’alternarsi dei pedali è ampiamente stemperata dai successivi 3 km di discesa rapida e ininterrotta verso Fertilia, che mi depositano poi dolcemente lungo il Lido di Alghero. Percorro sul velluto il lungomare che mi porta fino a casa nostra, dove giungo alle 17.30 senza potermi scrostare dalla faccia un sorriso. Apro casa per far prendere aria, poso tutto e riparto subito per la spesa per l’indomani. Di ritorno col bottino passo dalla pizzeria all’angolo e sequestro due pizze farcite con amianto, catrame, carciofini, olive nere, manganese e solventi alifatici. Belle sostanziose. Una Ichnusa fa da degna cornice al tutto, innescando una tonitruante chiosa gastro-sonora, cui dò libera espressione a scapito della serenità del vicinato. Niente digitale terrestre, cena con sottofondo di giornale radio. Doccia, bucato, quattro passi per buttare giù la lieta cenetta. Telefonate a moneta. Sera fresca e ventilata, che dona sollievo alle scottature solari rimediate in giornata lungo il cammino. Domani Bosa. Buonanotte.

Percorrenza: oggi circa 70 km - totali 90 km

GIORNO 3 - 26.05.2009 - Alghero-Bosa Marina

Sveglia alle 07.00, toilette, esco a fare colazione in un bar, borse, chiusura casa e partenza verso le 09.10. Comincio ad impratichirmi nello smonta-e-rimonta che caratterizza il viaggiare in bici, ma nonostante ciò non riuscirò mai a comprimere le pratiche mattutine a meno di un’ora abbondante, con picchi di quasi due in caso di tenda e sacco a pelo. Ma tanto chi mi corre dietro? Le ustioni del giorno prima continuano a farsi sentire, oggi sarà meglio che stia attento per non compromettere tutto. Il sole è velato ma la temperatura è già alta. Attraverso il centro di Alghero, la città comincia a movimentarsi. Subito fuori dal centro abitato si presentano le prime salite, ma sento bene le gambe ed il fiato. C’é un pò di vento, aiuterà ad asciugare gli indumenti lavati la sera prima, alla mattina erano ancora umidi e li ho dovuti stendere sulle sacche posteriori con le mollette. Questo tratto di costa, particolarmente panoramico, attira parecchi motociclisti. Molti di loro salutano o fanno un cenno con la testa, come anche molti turisti fermi a scattare foto sul ciglio della strada, nei punti più suggestivi. La giornata è favorevole, il cielo si è schiarito, i colori della natura risplendono al sole, si accentua il contrasto tra il verde della costa che si fa scoscesa e ricca di vegetazione ed il blu del mare. La strada comincia ad inerpicarsi in modo cattivello tra un tornante ed una curva. Metto in conto che sarà dura, e mi preparo psicologicamente di conseguenza. Tale  consapevolezza è suffragata da una ciclista che mi sfila in senso contrario, io in salita lui in discesa, invitandomi in maniera scanzonata a prendermela con calma, che tanto fino a Bosa è ancora lunga. Riduco l’andatura sulla strada che continua a salire, devo conservare le forze, va bene un pizzico di sano agonismo per misurare sé stessi, ma facciamo in modo che non diventi agonìa. Lunghe e interminabili salite di 2-3 km si alternano ad altrettanto lunghe ma fulminee discese, sembra un ottovolante. Continuo però a reggere bene, mi concentro su me stesso per “ascoltare” quello che mi dicono le gambe, il mio motore. Attingo abbondantemente e con regolarità dalle riserve di acqua e integratore, freschi e dissetanti. Ancora niente appetito. Si instaura una sensazione di euforia, sorrido sotto sforzo sentendo la mia risposta. Sono tutte sensazioni mai provate prima, sto misurando me stesso in un’esperienza lungamente sognata, ma che adesso ha la concretezza del fatto, dell’evento, dell’esperienza con cui fare i conti, da solo. Dalle parti di Capo Marrargiu, dopo circa 3 ore di pedale, l’ingombrante sicumera comincia a vacillare. Curva dopo curva si profila una salita costante, moderatamente monotona ma cattiva, lunga chilometri. La temperatura comincia ad aumentare, complici anche le nubi che ogni tanto si diradano consentendo al sole di dardeggiarmi sulla schiena. La mia gamba sinistra, o perlomeno la sua parte esposta al sole, comincia progressivamente ad ustionarsi.  E’ questa un’altra delle particolarità del cicloviaggiatore: l’abbronzatura tematica. Dipende da dove batte in prevalenza il sole nella tappa del giorno, e ti ritrovi con una gamba mezza viola e mezza bianca, ma nel senso della circonferenza. Oppure mezzo collo rosso e mezzo no, un avambraccio scottato ed uno fresco come una rosa. Fatto sta che non riesco ad ingranare un rapporto maggiore di un mesto pareggio: 1-1, ovverossìa la corona anteriore più piccola ed il pignone posteriore più grande, un rapporto che mi consente di avanzare di 15 cm per ogni giro di pedale... Talvolta azzardo un 1-2 ma duro pochi metri. La sensazione è quella di avere un paio di pachidermi agganciati alla bici, che tirano in senso opposto. San Michele Arcangelo si materializza nello schermo del GPS con atteggiamento di caritatevole compassione, invitandomi ad abbandonare ogni velleità terrena in vista dell’imminente trapasso. Sfruttando la mia ormai conclamata vocazione al martirio, Allah dal ciclocomputer fa da controcanto, suggerendo che anche dalle sue parti potrei trovare idonea sistemazione per l’eternità. Lo strappo quasi verticale prosegue senza soluzione di continuità, e oltrepassati i 300 mt di altezza sul mare avverto vicinissime le nubi scorrere sopra di me, dal mare verso terra. Salendo ancora, 100 mt davanti a me, noto sbuffi di condensa attraversare la strada veloci e sfilacciati, sospinti e sollevati dalla brezza tesa che si incunea dal livello del mare lungo un canalone, condensando poi l’umidità più in alto lungo il costone. Raggiungo la massima altezza a 375 mt in corrispondenza di Capo Marrargiu. Segue una discesa infinita. Precipito a rotta di collo, pennellando curve a velocità folle e cesellando tornanti per tutta la larghezza della sede stradale. Non propriamente una cosetta prudente. Faccio il contropelo ai 65 all’ora ad un addetto ad un cantiere stradale. Percepisco le sue contumelie che si smorzano in lontananza, distorte dall’effetto Doppler. In corrispondenza di Torre Argentina devio verso un Bar-Ristorante, è l’una e magari trovo qualcosa situato più in basso di me nella catena alimentare. Le mie speranze si infrangono contro una cattiva pianificazione nel supply flow dell’esercente (hanno finito il pane), e riprendo il cammino lungo la Provinciale. Scavallando un’ultima salita scendo fino a Bosa Marina. Arrivo alle 14.10 all’ostello ove ho programmato di  pernottare, ma un cartello mi ammonisce che aprirà solamente alle 15.30. Mollo la biki e mi accomodo in un ristorante poco lontano. Sono l’unico cliente, mi siedo col personale che sta pranzando (detesto mangiare da solo: dato il mio pressoché totale disinteresse per il cibo la parte migliore dei miei pasti è la conversazione). Scambio due parole, e il locale si rivela essere anche albergo. La titolare con finta noncuranza butta lì sul tavolo la classica offerta che non si può rifiutare: per 30 euri mi offre camera singola con bagno e TV, colazione inclusa. Beh, il treno, quando passa, va preso. In tempo zero mando in vacca l’ostello e i suoi orari di apertura poco customer oriented, recupero baracca e burattini e mi installo in hotel, vieppiù hanno anche un ricovero al chiuso e sottochiave per la bici e posso stendere il bucato all’aperto in un’area comune. Camera piccola ma pulitissima. Doccia e bucato. Pisolino. Alle 17 esco a caccia di acqua e integratore per domani, ci scappa anche un gelato seduto sulla panchina lungo il porto fluviale.Torno in camera, TG della sera e cena. Domani stimo la colazione alle 08.00 e via verso il Sinis. Buonanotte.

Percorrenza: oggi 49 km - totali 143,11 - salita cumulata oggi 1.000 mt!!!!

GIORNO 4 - 27.05.2009 - Bosa Marina-Is Arenas

Non c’é nulla da fare: nonostante ogno sforzo non riesco a svegliarmi prima delle 07.00, e comunque non riesco ad alzarmi subito. Stanotte le scottature mi hanno dato qualche fastidio. Toilette, colazione, bagagli, partenza ore 09.10. Sempre più tardi. La temperatura è decisamente fresca il mare è molto agitato, lungo la litoranea vengo raggiunto da qualche debole spruzzo trasportato dal vento. Subito dopo Turas la strada strappa in alto, riecco l’1-1 a non più di 6-7 all’ora. Continua così fino a Magomadas, dopodiché il tracciato spiana fino a Tresnuraghes, ove faccio tappa per nuova colazione e acqua. Assodato che la crema solare che sto usando non pare sortire effetti concreti, mi fermo in farmacia e ne esco con un unguento spray protezione 60, dopo un cazziatone da parte della farmacista per la mia avventatezza nell’usare una inadeguatissima protezione 20. Mentre indugio sulla soglia della farmacia con l’eco della rampogna ancora nelle orecchie ecco che per il centro del paese sfila una rumorosissima carovana di nazisti tedeschi motomontati, di quelli con giubbotti di pelle sotto gilet smanicati in jeans, nappe & borchie e veri elmetti SS neri opachi con la svastica. Durante il ributtante carosello che appesta l’aria del centro medito lungamente di sacrificare la mia biga, e brandirla per accopparne almeno uno. Recedo dall’insano - per quanto socialmente utile - proposito, addentrandomi lungo l’altipiano con poche variazioni altimetriche. A Sennariolo ne approfitto per comprare un panino per pranzo e dei pomodori, e per ammirare i murales che caratterizzano il minuscolo centro abbarbicato sulle pendici del Montiferro.

Mentre mi accingo a ripartire verso Cuglieri, in tenuta oramai ciclisticamente un pò easygoing, mi imbatto in una pattuglia di Carabinieri. Senza profferire verbo alcuno ma solo accennando silenziosamente l’indice sulla testa da dietro il finestrino (scommetto che neanche lui scommetterebbe un euro che io possa essere italiano), uno dei militari mi intima severamente di rimettermi il casco. Eseguo fulmineo, pervaso di vergogna. Da lì a trecento metri capisco il perché di tanta severità: il tratto di strada successivo è puro delirio. Una ripidissima discesa a tornantelli raggiunge un fiume che scorre più in basso, in una piccola e stretta valle, per poi inerpicarsi nuovamente dal versante opposto lungo le pendici del Montiferro con pendenze ben oltre il 10%, mai sperimentate prima men che meno in queste condizioni di carico. Tic-tic-tic. Riesco comunque a giungere alle 12 a Cuglieri, 449 mt. di altitudine. Trangugio il panino e due pomodori residui, suggellando il tutto con un caffé ad un bar. Il tratto successivo di strada tra Cuglieri e Santa Caterina di Pittinuri sono riassumibili in quasi 10 km di discesa, senza girare un pedale, a 45-50 all’ora e schiaffoni di vento da destra, che quindi tendono a buttarmi in mezzo alla strada. Chilometri di rettilineo puntano direttamente al mare. A S’Archittu, dopo un infruttuoso tentativo di intravedere la tanto decantata quanto caratteristica formazione rocciosa (ad arco, appunto, formato dall’erosione del mare e dei venti), mi fermo a comprare acqua e fare sosta toilette. Mi incuriosisco al cospetto di due 28” parcheggiate fuori, equipaggiate di tutto punto ma nel complesso caricate in modo estremamente più leggero della mia. Una volta all’interno scopro i proprietari, due signori tedeschi che stanno viaggiando in direzione opposta alla mia, da sud a nord. Auguro loro buon divertimento, in previsione dell’infinita salita che li aspetta. In prossimità della spiaggia di Is Arenas mi sono ripromesso di sciogliere un dilemma e fare una scelta: durante le fasi preparatorie, in un giro di telefonate per sincerarmi dell’effettiva apertura dei vari campeggi, ho appreso che il campeggio Is Aruttas a Mari Ermi (Penisola del Sinis), per raggiungere il quale mancano ancora svariate decine di km, non fornisce ristorazione causa recente incendio. Sono pertanto costretto a sostituire tale tappa originariamente programmata con quello che trovo strada facendo, ben sapendo in questo modo di allungare la percorrenza dell’indomani. Mi addentro pertanto nella amplissima e stupenda pineta di Is Arenas, varcando il cancello dell’omonimo campeggio in cerca di qualcuno cui domandare alloggio per oggi. La ricerca nei meandri del camping è però priva di esiti: non c’é nessuno, ma proprio nessuno, da nessuna parte, neppure ospiti. Onde riflettere sul da farsi mi servo comodamente della toilette, uscito dalla quale permane la totale assenza di anima viva oltre me. Saluto in silenzio gli ignoti - e assenti - benefattori lasciando il campeggio alla sua sorte, e mi installo nell’adiacente camping Nurapolis. Pianto l’accampamento tra un quadrilatero di pini, doccia, bucato che stendo tra i tronchi, pennichella. Il campeggio è già ben frequentato, ed il ristorante va che è una meraviglia. Cena con abbondante pizza, birra & dolce. Le mie facoltà mentali rattrappiscono rapidamente a livello di protoscimmia del Borneo. Deduco che per oggi forse ne ho avuto abbastanza, e mi infodero alle 20.50. Ma mentre sono lì con l’occhietto che vacilla (e anche con lo stomaco in panne a causa della inusuale scorpacciata), una comitiva di crucchi prende possesso della piazzola accanto alla mia, preceduti ed accompagnati da un festoso e vociante fracasso fino a notte inoltrata. Mi attraversano la mente le reazioni dei tedeschi nei film di Fantozzi (“Italiano sempre canta balla baffi neri mandolino”), ritrovandomi però in una realtà a parti capovolte. In pratica non riesco a concentrarmi sul sonno fino alle 23.30, forse anche complice il pisolino del pomeriggio. Stasera nel sacco a pelo si sta veramente bene anche con la maglia a maniche lunghe: è pur sempre Maggio, il ventaccio di oggi si è indocilito in una bella brezzolina tesa e fresca, ma in lontananza c’é sempre il roboante sottofondo del mare agitato che si infrange sulla costa. A causa della tappa anticipata domani DEVO ASSOLUTAMENTE svegliarmi per partire presto. Buonanotte.

Percorrenza: oggi 45 km - totali 187 - salita cumulata oggi 665 mt.

GIORNO 5 - 28.05.2009 - Is Arenas-S’Ena Arrubia

Sveglia alle 06.30, e meno male che ci ho pensato da me. Infatti, esattamente DUE minuti dopo avere ripreso conoscenza, il petulante scoppiettìo di una sega a motore stropiccia e spiegazza il vellutato chiarore dell’alba. Nella pineta adiacente il campeggio gli operai comunali hanno iniziato la manutenzione stagionale del patrimonio arboreo, sfoltendo il sottobosco allo scopo di prevenire gli incendi. L’operazione, però, incontra evidentemente qualche ostacolo: per imperizia o malfunzionamento, il sottofondo di sega a motore è infatti intercalato da tonanti bestemmie ogniqualvolta avviene un inceppamento dell’utensile, con una cadenza di due-tre volte al minuto. L’effetto è spettacolare: il nuovo giorno è salutato da una riecheggiante varietà di bestemmie all’indirizzo di tutta la Trinità e una varietà di Santi - alcuni dei quali a me sinora ignoti - con una dovizia di epiteti da campionato intergalattico. Mai una ripetizione in trenta minuti. Mi riscuoto dal deliquio per la notevole performance e mi attivo, uscendo dalla tenda nel fresco del mattino. Scopro così che la tenda dei rompicoglioni della sera prima è stata piantata a tre metri dalla mia: mi assale l’idea di irrompere urlando, sbavando con gli occhi di fuori, tanto per vedere l’effetto che fa. Proseguo invece per la mia strada, con toilette, raccolta equipaggiamento, armamento biga. Abbondante ed ottima colazione al bar del campeggio, check out con tifo della titolare alla reception, recupero ghiacciolini per la borsa frigo e si va..... all’alba delle 09.10!!!! Rispetto ai giorni precedento la tappa di oggi sarà praticamente una passeggiata, grazie all’altimetria che prevedo quasi inesistente. Unico fattore sarà il chilometraggio aumentato, dovuto alla tappa anticipata di ieri. Un paio di saliscendi mi sospingono nella penisola del Sinis; manco clamorosamente la stele di Amsicora (o Ampsicora), alla quale avrei tenuto davvero tanto fare una foto ricordo. Punto su Putzu Idu, voglio vedere com’é. Fendo oliveti e campi coltivati, un colpo d’occhio che, se non fosse per gli eucalipti ai bordi delle coltivazioni, potrebbe benissimo essere la Val Padana.

Scopro che Putzu Idu si risolve in una sottile lingua di sabbia orientata verso Ovest, attraversata dalla strada, con la spiaggia dal lato Sud sommersa di alghe marcescenti ricettacolo di ogni genere di insetti, e una sequenza di chioschi sul lato Nord. La strada si infrange contro una tumescente neoplasìa di villette rigorosamente chiuse a deturpare per sempre il luogo. Inverto la testa al ciuccio e ripercorro i miei passi. Approfitto di una chiosco aperto per servirmi una seconda colazione, allietata (si fa per dire) da una mestissima canzone country di Johnny Cash in sottofondo. Mi congedo dopo avere conquistato un panino per il mio pranzo, alla volta di San Salvatore e l’area archeologica di Tharros, verso sud. Mi infilo quasi senza accorgermene in un panorama assai dolce, erboso e fiorito, con dune alla mia destra e stagni alla mia sinistra ad incorniciare la strada pressoché rettilinea. Il traffico, presente in uscita da Putzu Idu, dopo un bivio per Oristano è scemato completamente, sono solo per molti chilometri. La visita al villaggio abbandonato di San Salvatore, verso l’estremità meridionale del Sinis, è qualcosa di speciale: l’abitato - fondato da pescatori - è formato da casette basse e molto strette, ravvicinate l’una all’altra e l’una di colore diverso da quelle accanto, raccolto attorno ad un’amplissima piazza quadrangolare, la “Piazza delle feste”. E sembra quasi di rivederla, una di quelle feste del Santo Patrono, con tutti gli abitanti che gremiscono lo spiazzo nel loro abito migliore. Fuoriesco da questo fugace viaggio nel tempo e proseguo verso San Giovanni Sinis e quindi Tharros. La visita alla zona archeologica dura un’oretta assai gradevole, con tanto di guida turistica che mi ragguaglia sulle rovino che sto visitando.

Mangio il mio panino con un caffé al bar della biglietteria. Ma è ancora troppo presto per partire, il sole mena come un maniscalco e non mi fido. Scendo a S.Giovanni Sinis e mi fermo sotto gli ombrelloni di paglia di una bar fighetto per un’altra ora, sorseggiando un succo di frutta. 14.30: riprendo il cammino. Sfido gli elementi togliendomi la maglia, sembra che le scottature siano sulla via della guarigione. Lungo la strada devio per Marina di Torregrande, dove sosto per un gelato. Senza una cognizione certa della topografia locale mi addentro in Oristano, sto praticamente navigando ad intuito in luoghi mai visti prima, sulla base dei punti cardinali. Imbrocco la svolta giusta che mi consente di aggirare lo Stagno di Santa Giusta da ovest, speravo fosse meno trafficato. Giungo al Camping S’Ena Arrubia attorno alle 16.45. Faccio anticamera alla reception per quasi un’ora prima di potermi sistemare definitivamente, ho bisogno di un allaccio luce ma sono privo di accessori: devo quindi attendere il ritorno del principale per chiedere assistenza. Alle 18 prendo possesso della piazzola e mi avvento a mettere in carica il cellulare e le batterie del GPS e della fotocamera. Doccia senza bucato (ci penserò domani, mi fermerò un giorno). Cena abbondante ed ampiamente irrorata di rosso della casa. Infatti butto giù questi appunti che credo di essere sonoramente SBRONZO... Mancano ancora le note sul chilometraggio.... Buonanotte. BURP!

Percorrenza: oggi 83.5 km - totali 269.2

Salita cumulata: ininfluente

Media chilometrica: 19.36 km/h

Tempo totale pedalato: 4 ore 18 minuti.

GIORNO 6 - 29.05.2009 - Sosta a S’Ena Arrubia

Oggi riposo. Dopo la storta di ieri sera col rosso della casa fresco fresco che andava giù una favola non ce l’avrei fatta neppure volendo. La notte è passata in maniera un pò “etilica”, sommato anche il fatto che, essendo il campeggio adiacente un’area faunistica protetta, si sono uditi i richiami degli uccelli di stagno rompere i cosiddetti senza soluzione di continuità dal tramonto all’alba. E il risveglio mattutino è qualcosa il cui impatto sonoro risulta semplicemente indescrivibile a parole. Sono quindi in piedi alle 7 (o alle 8?... non ricordo con precisione...). Toilette, colazione, e poi puntatina in bici ad Arborea per un pò di spesa, bancomat, etc. Mi incammino lungo una ciclabile SPETTACOLARE, con segnaletica orizzontale ineccepibile e ottimamente mantenuta (ma perché a Milano no?). Al termine di una gradevola pedalata di non più di 20 minuti (senza maglietta, oramai siamo all’abbronzatura selvaggia) mi ritrovo catapultato nel NordEst d’Italia, a occhio e croce tra Treviso, Vicenza e Padova. Infatti tutto quanto, dall’architettura agli arredi urbani alle colture alle cascine, rammenta il Veneto: impronta dei coloni che occuparono per coltivare queste terre bonificate durante il Ventennio. Tutto ispira ordine e pulizia, ma ciò che impressiona maggiormente è lo STACCO NETTO con cui il paesaggio circostante della Sardegna cede il passo a questo lembo di Veneto, senza preavviso ed in uno spazio di un centinaio di metri percorrendo la strada principale che da Oristano entra in Arborea. Raggiungo un centro commerciale, c’è anche un hard discount, compro da leggere un quotidiano + Dylan Dog, integratore e acqua per domani. Sosta bancomat, c’é pure il mercato. Ne approfitto per acquistare della frutta: al mio arrivo, il fruttivendolo si incuriosisce per la bici equipaggiata e mi domanda l’itinerario che sto seguendo. Dopo quattro chiacchiere sono sulla via del ritorno. Taglio il campo di ripresa ad una troupe cha sta girando riprese dell’architettura locale, non paiono italiani. Magari finirò in qualche documentario finlandese. Mi imbatto in un cicloturista solitario che sta provenendo da Oristano diretto verso sud: ci fermiamo a scambiare due parole, si chiama Luigi ed è di Palazzolo sull’Oglio. Sta facendo l’intero giro della Sardegna da solo ed è anche lui alla prima esperienza del genere. Ed anche lui ne è entusiasta. Ci salutiamo con la sensazione di avere incontrato un altro appartenente ad un ristrettissimo club esclusivo. Girando per la ciclabile, a pochi km dal camping, la mia attenzione viene attirata da un portellone aperto sul retro di un cascinale, e dentro tre giovani. Mi fermo e chiedo se posso dare un’occhiata, e la risposta che ne ottengo è gioviale, affermativa ed accogliente. E’ il figlio del proprietario della fattoria che sta facendo da guida alla figlia di un altro proprietario terriero della zona. Il capannone è quello dell’allevamento dei conigli, ma proseguendo nella visita, alla quale mi aggrego, ci vengono mostrati anche i recinti delle capre, i pavoni, i maiali, le galline. Assisto meravigliato ai loro discorsi, ognuno di loro sfodera le proprie conoscenze nei campi di interesse: la ragazza è esperta di mucche, e stanno scambiano esperienze e differenze sui diversi metodi di allevamento tra bovini e ovini con impressionante dovizia di particolari. Saluto e riprendo la marcia di avvicinamento al campeggio che raggiungo alle 12.30. Seduto al patio del bar faccio fuori il tramezzino preso ad Arborea (in questa stagione il ristorante del campeggio è chiuso a mezzogiorno), assorto nella lettura. Gli ultimi dieci minuti di apertura del bar si rivelano utili per un Magnum alle mandorle. Segue bucato e, verso le 15.30, mi avvicino al mare. Che però è troppo mosso. per un bagno. Opto dunque per la provvidenziale piscina. Sdraio, telo, MP3, crema idratante protezione ZERO. Verso le 17.30 quattro vasche. Verso le 19 dichiaro conclusa l’esperienza balneare e mi dedico al riassetto e pulizia della tenda, doccia e taglio capelli col rasoio (mannaggia alla pupazza riesco anche a tagliuzzarmi). Cena - sto morendo di fame!!!! Ri-burp (anche se stasera mi sono moderato col vino...).

Percorrenza: 0

GIORNO 7 - 30.05.2009 - S’Ena Arrubia - Piscinas

Stanotte ho dormito un pò meglio. Solito fragoroso concerto pennuto all’alba, giù dalle brande alle 06.30, oggi si parte. Pratiche mattutine, disarmo dell’accampamento, colazione, check-out. Non riesco a partire prima delle 09.30 (tanto è tutta pianura, penso). Saluto i miei vicini di piazzola, una giovane coppia svizzera con un bimbo di circa 4 anni curioso come un scimmia: a più riprese ieri ha tentato di arrampicarsi sulla mia tendina per affacciarsi alla zanzariera superiore e sbirciare dentro, con potenziali effetti devastanti sulla tenuta della struttura nonché - al suo quarto tentativo - sulla tenuta della mia pazienza. Ad Arborea tento di acquistare un panino, ma resto deluso perché al Market non ne preparano. Proseguo lungo la ciclabile che fende un paesaggio dai connotati marcatamente padani. Strade rettilinee, costeggiate da filari di alti e frondosi alberi, che si intersecano ad angolo retto scontornando ampi appezzamenti coltivati: la navigazione non è di certo un problema. Giunto a Marceddì, sulle sponde dell’omonimo stagno, mi ritrovo repentinamente catapultato dalla Pianura Padana ad un borgo marinaro del Mar Egeo. Mi fermo ad un bar per il panino-pranzo e per la toilette. Ne ottengo 40 grammi di salume e un’ostia di formaggio in 60 grammi di pane (praticamente una tartina) per TRE EURO!!!! Gli venisse un mal di denti!!! Riprendo la marcia dopo aver subìto la rapina a mano armata, e poco più avanti sosto all’estremità nord del pontile che attraversa la baia fino a Sant’Antonio di Santadi, per fare delle foto. Mi soffermo a fare due chiacchiere con Anna e Marco, da Milano, dopo che hanno inconsapevolmente tentato di tirarmi sotto con l’auto a noleggio. Si dimostrano ammirati per la mia iniziativa e per l’organizzazione, e vogliono sapere da dove vengo e dove stia andando. Loro stanno arrivando da Sud e proseguiranno a Nord. Dal pontile cominciano a sfilare a tutta velocità i concorrenti di una competizione di endurance cross, ne incontrerò parecchi nel prosieguo della giornata. Mi risolvo alfine ad attraversare il lunghissimo pontile, cosa che faccio con andatura flemmatica anglosassone, ben conscio che gli autoveicoli alle mie spalle, costretti alla mia stessa velocità, non possono fisicamente sorpassare tanto la carreggiata è angusta. Il pontile, infatti, altro non è che una strettissima passatoia di servizio per la manutenzione e l’operatività delle chiuse che regolano l’afflusso delle acque marine all’interno della baia, a scopo di pesca. Senza essere stato originariamente pensato per il traffico motorizzato, col tempo è invece divenuto una comoda scorciatoia che evita il periplo dello stagno, consentendo di abbreviare il tragitto di una ventina abbondante di chilometri. I mezzi che affrontano la traversata e si incrociano sul pontile in senso opposto sono però costretti a manovre folli, rallentare, letteralmente sfiorarsi a due all’ora a volte dovendo ritrarre gli specchietti laterali, spesso indietreggiare per prendere meglio la mira. Furgoni e autocarri debbono addirittura fermarsi alle opposte imboccature prima di salire sul pontile, aguzzare la vista e procedere a tutta birra solo se sicuri che nessuno sta giungendo in senso contrario, altrimenti sono guai. E infatti svariate tracce di vernice multicolori decorano tratti delle sponde in cemento armato, testimoniando casi di miopìa, eccessiva fretta, o imperizia nell’incrociare altri veicoli, a tutto vantaggio dei carrozzieri della zona. Ma la fluidità con cui tutto ciò avviene denuncia una radicata forma mentis della popolazione locale orientata al rischio calcolato, o alla rassegnazione. Giunto dalla parte opposta del pontile acquisto dei pomodori ad un chiosco improvvisato di bellissima frutta e verdura locale. L’anzianissimo venditore - poco avvezzo alle diavolerie moderne - ingaggia una intensa colluttazione con la bilancia elettronica per pesare la verdura. Alla fine l’aggeggio decide in autonomia di rimettersi in riga. Riprendendo il cammino in direzione di S.Antonio di Santadi sfilo davanti all’ingresso della base radar di Capo Frasca, si intravede pure la girante spazzare ciclicamente l’orizzonte. Superato il centro abitato iniziano le salite, nulla di paragonabile alla Alghero-Bosa né alla Bosa-Cùglieri, però la fatica, per la prima volta, comincia a farsi sentire. Avverto un accenno di cedimento, forse dovuto al percepire l’approssimarsi del termine dell’esperienza. Tra un saliscendi ed un tornante sfilano a tutta velocità i concorrento della gara di cross, ancora in corso. Per evitare le ore più calde della giornata scelgo di sostare a Porto Palma. Dal cocuzzolo di un promontorio scosceso il paesello domina verso nord su una spiaggia a dir poco immensa, con stabilimenti balneari e chioschi bar-tavola calda.

Scendo a rotta di collo lungo una ripidissima e contorta - ma ben tenuta - strada comunale che porta svelto ad un amplissimo parcheggio. Già intravedo che un gelato ed un caffé premono per proporsi dopo il panino. Trascinando faticosamente e col sole a picco la bici sulla sabbia approdo al primo chiosco, e domando ove poter lasciare la dueruote. Mi viene indicato, non senza sorpresa da parte del mio interlocutore, un angolo ombreggiato dietro una staccionata. Nonappena sistematomi vengo redarguito severamente da un losco figuro, sbucato probabilmente da sotto una duna, che mi ammonisce sulla destinazione d’uso dell’angolino riparato, riservato ai clienti del ristorante. Ignorando quali nefasti effetti possa provocare la vista di una bici sulle funzioni gastroepatiche degli avventori, faccio garbatamente notare di esser lì in seguito ad un suggerimento datomi dallo stesso ristorante. Vengo in ogni caso vivamente invitato a togliermi dai piedi. Cosa che eseguo prontamente (l’aria si è fatta pesante), ma non prima di sferzare, all’indirizzo del turpe personaggio, l’osservazione che IO STESSO e la mia comitiva di QUINDICI ciclisti stavamo per servirci del ristorante. La piccola menzogna mi vale la soddisfazione della faccia del brutto pirla mentre me ne vado. Ripercorro a ritroso la passatoia (si fa meno fatica) fino all’ingresso della spiaggia, e mi parcheggio al parcheggio... Panino, pomodori e frutta sono allietati dal viavai di gente, i primi turisti della stagione e solitamente i più saggi, un vero campione umano assai interessante. Il caffé lo prendo ad un baretto che sta aprendo proprio in quel momento. Non posso non notare le vetrate crepate in contrasto col resto del locale, ristrutturato di fresco. Apprendo con dispiacere dal giovanissimo proprietario che il locale è stato recentemente vandalizzato, e questo fatto sta creando non poche grane e ritardi per l’apertura stagionale. Il tizio è gentile, e mi consente di tenere la biki sotto l’ombra del suo patio. E quindi telino, lettore MP3, acqua e vado in spiaggia. Prendo il sole tra le dodici e le due e mezza senza protezione (tanto è già da stamattina che pedalo senza maglietta). L’ideale per una cottura a fuoco lento. Rosolato a puntino e bello croccante mi riscuoto e riprendo a pedalare, conscio della mega-salitona fino all’abitato sul cocuzzolo del promontorio. Me la cavo in mezz’oretta, e mi rituffo nei saliscendi verso sud. Il viavai di motociclisti in gara in tutte queste ore non ha accennato a diminuire. Per sentirmi meno solo comincio a salutarli tutti, puntualmente ricambiato. Faccio varie soste per bere e scattare fotografie, il vento è aumentato considerevolmente e a momenti spira contro. Il Monte Arcuentu severo mi scruta da est. Oltrepassata Marina di Arbus la strada si fa sterrata, e scopro che i turbocentauri sbucano proprio da quella direzione. Più avanti, in corrispondenza di un guado è appostato colui che credo sia il fotografo ufficiale dell’evento, che mi scatta anche una foto mentre attraverso il corso d’acqua pedalando. Mi sovviene solo dopo una decina di chilometri che avrei potuto chiedergli come avere la foto.... peccato. Mi aggiro in paesaggio adesso lunare, con ampie tracce dell’attività mineraria che ha interessato questa zona sino a pochi anni fa. Sono infatti entrato nel Parco Geominerario del Sulcis-Iglesiente, dove nei decenni (se non dei secoli) passati ha avuto vita l’epopea dei minatori di metallo e carbone. Le vene dei metalli che impregnano le rocce circostanti colorano infatti ogni porzione del campo visivo, con un effetto cromatico da Pianeta Marte. Il torrente appena guadato scorre in un letto di fanghiglia di un vivido rosso-arancio, i contrafforti pietrosi che chiudono la visuale sono striati di verde, stratificati di varie tonalità di grigio o ricoperti di depositi giallastri. Il tracciato è maledettamente polveroso, al passaggio delle auto nuvoloni di minutissimi corpuscoli aleggiano nell’aria per svariati minuti, mozzandomi il respiro e depositandosi addosso, sulla bici, negli ingranaggi. Il debole vento non aiuta, sospingendo ulteriormente le nuvole nella mia direzione. Dopo un pò non ce la faccio più, e chiedo alla conducente dell’ennesima auto di lasciar andare avanti me per non dover mangiare la sua polvere. Mi concede la cortesia, sono due donne con figli a zonzo per la zona. Le reincontro più avanti ad un secondo guado, che attraverso però a piedi anche per sciacquarmi un minimo, sono totalmente ricoperto di polvere appiccicata dal sudore. Giungo all’ingresso del campeggio verso le 17, e considerato che l’indomani non avrò tempo per fare turismo, tiro dritto dirigendomi direttamente alla spiaggia di Piscinas, giusto per poter dire di esserci stato.  Appoggio il potente mezzo ad un palo dopo aver disceso la lunga passerella in legno, e mangio la mia frutta seduto per terra. La scena però non passa inosservata, e tutti, ma davvero tutti, passando osservano incuriositi, commentano, salutano. Una donna mi interpella entusiasta, vuole conoscere i dettagli della mia esperienza, viene raggiunta dal resto del suo gruppo: sono liguri, e stanno meditando di fare l’Olanda a Luglio.

Auguro loro di non desistere e li saluto. Mi risiedo sulla passerella a finire la mia frutta quando la voce più impastata dell’universo mi apostrofa da tergo. E’ Salvatore, il dimesso quanto alticcio parcheggiatore comunale che, di passaggio verso il presumibile ennesimo goccetto al chiosco bar, mi minaccia di elevare verbale causa sovraccarico di mezzo a pedali. La mia risata liberatoria di un minuto e mezzo mi sgrava da tutte le fatiche degli ultimi giorni, e sono pure costretto a declinare l’invito del parcheggiatore alcoolico ad aggregarmi per bere con lui. Ringrazio e prendo congedo, si sta facendo tardi e devo ancora accamparmi. L’arrivo al campeggio Sciopadroxiu è venato di intense contumelie ed improperi all’indirizzo di chi abbia mai ideato il viale di ingresso: un’erta ripidissima pavimentata di lastroni sconnessi, un vero incubo cicloturistico. Il luogo però si rivela notevole, bello, comodo, confortevole. Mentre sbrigo il check-in domando informazioni sulla strada per Iglesias, ancora incerto se proseguire vero sud oppure accorciare per S.Gavino Monreale a est e prendere il treno. Ma le ragazze della reception non paiono ferrate in materia, e per giunta il fatto di viaggiare in bici getta l’incertezza totale su qualsiasi stima del tempo di percorrenza. Mi riservo di decidere in un secondo tempo, magari l’indomani stesso, e per non sapere né leggere né scrivere pago in anticipo il soggiorno onde non escludere eventuali partenze antelucane. Montaggio tenda: molta gente incuriosita dalla bici passa, osserva e saluta. Noto passare un tedesco incontrato qualche ora prima lungo la strada per Piscinas: mi avvicina e mi chiede qualcosa del mio viaggio, dell’itinerario coperto, e ci diamo appuntamento per cena al ristorante del campeggio. Sempre mentre monto la tenda compare una coppia in vespino sovraccarico di bagagli sino all’inverosimile. Non riesco ad esimermi dallo sfotterli un pò, ma mi rimbeccano sul fatto che in materia di bagagli sono più estremo io. Anche con loro l’appuntamento è a cena. Quindi doccia, niente bucato per risparmiare tempo, e neppure materassino in tenda (la pagherò ASSAI cara la notte stessa). Mi appropinquo a mangiare con l’appetito di un branco di iene. Ritrovo Reiner il tedesco, e riattacchiamo conversazione. Lo scopro essere un designer CAD-CATIA di componenti di auto di lusso. La cena è buona, la chiacchierata pure, ma il troppo sole preso oggi comincia a farmi un bruttissimo scherzo. Emano infatti moltissimo calore, comincio a sentire un freddo pazzesco a causa della dispersione termica corporea, la pelle vira tutta contemporaneamente al rosso aragosta, violaceo in alcuni punti, ed è dolorante. Mi accomiato dal teutonico, percepisco sormontare lo scompenso termico del mio corpo, raggiungo la tenda in preda ad un tremito violento ed irrefrenabile che solo la felpa da ciclismo riesce a moderare. Nonostante provi l’esigenza materiale di infoderarmi sul presto, mi addormento che è quasi l’una, non senza una certa preoccupazione per le mie condizioni fisiche. Non ho neanche la forza e la lucidità di darmi dell’imbecille.

Percorrenza: oggi 61 km - totali 331 km

Tempo totale pedalato: 4 ore 14 minuti.

GIORNO 8 - 31.05.2009 - Piscinas - S.Gavino Monreale - Porto Torres

Nottata serena e tranquilla, nonostante il costato finemente istoriato dagli spuntoni dei sassi, visto che non ho utilizzato il materassino. Vengo svegliato alle cinque dal pichiettare della pioggia sulla tenda. Mi affretto a sgusciare fuori a mettere al riparo le masserizie lasciate nottetempo appese o appoggiate alla biki, dopodiché mi alzo definitivamente attorno alle 06.30. La sberlona di ieri sera fortunatamente è solo un ricordo, e procedo senza indugio e piena forma alle abluzioni del mattino ed allo smantellamento del campo. Nel fare questo uno dei due neuroni residui sta rimuginando sul da farsi: proseguire per Iglesias, indi treno sino a Cagliari per risalire verso Porto Torres, oppure tagliare direttamente per S.Gavino Monreale e prendere lo stesso treno per Porto Torres ma con più calma nel pomeriggio? In assenza di pecore cui leggere il fegato cerco di trarre utili auspici dai segni della natura che mi circonda, e ne ricevo uno piuttosto irrefutabile: il cielo è plumbeo e a tratti pioviggina. Mi risolvo per la scorciatoia pomeridiana, mi consentirà tra l’altro di prendermela con più comodo. Festeggio tale risoluzione con una colazione composta da quattro fette biscottate burro e marmellata (due qualità diverse), brioche al cioccolato, cappuccino, succo d’arancia, e già che ci sono mi approvvigiono di acqua per la giornata e una spianatina per pranzo. L’improvviso aumento del PIL della provincia provocato dalla mia colazione comunque non mi costa più di NOVE EURI e TRENTA!!!!! Mi verrebbe voglia di fare una telefonatina urgente ad un certo barista di Marceddì, aduso a spacciare tartine a tre euro al pezzo... Ma il vero valore aggiunto è dato dallo spettacolo mattutino del mare in lontananza che occhieggia, ancora pacioso, tra le dune di Piscinas, che mi godo mangiando a quattro palmenti seraficamente assiso sotto la tettoia del ristorante. Incontro i proprietari del campeggio al bar, ai quali mi capita persino di dispensare suggerimenti su come rendere più accattivante e fruibile il sito Internet del camping. Impacchetto le ultime cose, sistemo la biga, ho variato la disposizione del carico in previsione del successivo pernottamento in nave. Parto, e percepisco l’inizio del termine di questa esperienza. Ciclisticamente la giornata comincia con otto chilometri di ininterrotta salita - a freddo - fino alla Statale 126. Meno male che il panorama man mano che salgo e le rovine minerarie aiutano a lenire lo sforzo.

Quasi giunto alla sommità, in prossimità dell’agognata Statale, mi imbatto in un gruppo di ruote grasse che comincia a sfottermi per l’imponente carico. A furia di reciproci sfottò cominciamo a parlare e scherzare, ed uno mi riconosce come quello che era ad Oristano il giorno precedente. Spiego loro dove sono diretto, e si offrono di accompagnarmi per mostrarmi una scorciatoia asfaltata che mi eviterà le salite fino a Guspini, che ignoravo essere così faticose come invece mi descrivono. Accetto di buon grado, mi scortano in gruppo chiacchierando lungo il tragitto in discesa sulla SS126 che, a tratti, si fa anche piuttosto rapida. Foto di gruppo al bivio per lasciare la statale. Scopro così una scorciatoia bumbastica, ovviamente non segnata. Poco prima di Gonnosfanadiga il gruppo si divide, Nino ci lascia e prosegue per Gùspini: si sta preparando per una Marathon a Irgoli per il martedì successivo. Giunti a Gonnosfanadiga facciamo una sosta ad un bar, ne approfitto per manifestare la mia gratitudine offrendo da bere, io faccio la seconda colazione. Saluto tutti e riprendo la strada per S.Gavino, che oramai dista una dozzina di chilometri. Che da lì a qualche minuto percorro tutti - ma proprio tutti - sotto una pioggia sferzante. Pare l’Irlanda: nubi basse e grigie scorrono veloci portate da un vento teso da sud, l’acqua cade quasi in orizzontale dalla mia destra. A contatto con la pelle, cotta dal sole del giorno prima, la sensazione è paradisiaca, pedalo rinfrescato ma a volte sento freddo. Passo accanto ad un parco eolico, le poderose giranti sono semplicemente ciclopiche oltre ogni mia idea, e producono un sottile fischio mentre ruotano nel vento. Arrivo a S.Gavino verso le 15 che la pioggia è terminata, e le scottature solari sono magicamente scomparse. Mi dirigo a spron battuto verso la stazione in centro paese, e lì mi si ghiaccia il sangue: la stazione è in stato di abbandono, è tutto fatiscente e dall’ossido sui binari intuisco che non passa un treno da un bel pezzo. Non capisco, e più non capisco più mi inquieto. Faccio su e giù un paio di volte alla ricerca di un segno che mi indirizzi, che mi spieghi, che non mi confermi di avere sbagliato méta. Già mi immagino a pedalare a perdifiato a ritroso verso Oristano, se non addirittura verso Cagliari, cercando una stazione ferroviaria in tempo utile per prendere il traghetto da Porto Torres. Un benzinaio poco distante, notando l’insolito viavai dell’altrettanto insolito esemplare di bipede ruotato, interviene a restituire luce al giorno: mi spiega che quella è la VECCHIA stazione, non più in uso. Fuori dal paese, dal lato opposto, è stata realizzata la NUOVA stazione, e me ne indica i cartelli. Riprendo a pedalare con lena, il mondo mi appare più bello. La famosa NUOVA stazione di S.Gavino è spettacolare, ultramoderna, dotata nientepopòdimenoché di rampe per biciclette, passeggini e carrozzine che raggiungono direttamente i binari. Faccio il biglietto compreso di supplemento bici, e già che ci sono faccio anche quello da Genova per l’indomani. Mi installo in sala d’aspetto, la stazione è deserta. C’é anche una toilette decente. Mangio, bevo, asciugo la bici ed il carico. Cincischio in attesa del treno prendendo gli appunti del giorno prima. All’orario previsto mi porto sul binario, ed all’arrivo del treno vengo colto da subitaneo sconforto: è il classico trenino diesel in miniatura, angusto e scomodo, nessun pittogramma ad indicarmi ove salire con la bici. Mi affretto a salire con baracca & burattini, lego tutto in uno dei vestiboli con le porte e mi accomodo. Salvo accorgermi alla successiva fermata che sto ostruendo uno degli ingressi alla carrozza. A treno fermo vengo raggiunto da un garbato capotreno che mi invita a seguirlo, mi mostrerà il bagagliaio dove collocare la bici. Dopo un tentativo andato a vuoto causa saracinesca difettosa cambiamo carrozza, carico il tutto, e nell’issarmi attraverso la porticina del bagagliaio - PEM! - mollo una craniata con l’eco alla sbarra di fermo dell’avvolgibile metallico. Dico così addìo a mezzo metro quadro di cuoio (una volta) capelluto, ed al senno residuo contenuto nella scatola cranica. Il garbato ferroviere, una volta rimesso in marcia il convoglio, mi assiste portandomi ovatta e acqua ossigenata dalla cassetta di bordo. In treno dormicchio e scrivacchio. A Porto Torres piove, scarico la bici e rimonto le borse sotto l’acqua. Mi incammino verso il nuovo imbarco, ma solo per apprendere che la biglietteria è rimasta all’imbarco vecchio, il porto industriale un paio di chilometri più ad ovest. Copro la distanza con foga, i tempi cominciano a stringere, e in un men che non si dica faccio ritorno munito di biglietto. Salendo sul traghetto ritrovo gli stessi addetti alla rampa dell’andata, domenica 24 maggio a Genova, che mi riconoscono e come se fossi un amicone di lunga data mi domandano come sia andato il giro. Lego la bike, salgo con tutto il necessario per il pernottamento, mi piazzo in sala poltrone. Nuovamente la doccia non ha acqua calda, ma la temperatura ambiente è notevolmente più bassa dell’andata, quindi opto per una rinfrescata a pezzi. Mi avvento sul self-service con l’appetito di un battaglione artiglieri, e nell’ordine scompaiono nel gargarozzo penne al pomodoro, cotoletta con patatine e maionese, verdure bollite misto cavolfiori-carote-fagiolini, insalata mista lattuga-pomodori, fetta di torta, e RUTTO LIBERO. Onde emulsionare  adeguatamente il tutto sosto al bar per una lettura di Dylan Dog e Vecchia Romagna. 22.30 tutti in branda. Nella sala poltrone la mascherina sugli occhi di notte ha il suo gran perché.

Percorrenza: oggi 40 km - totali 371 km

GIORNO 9 - 01.06.2009 - Porto di Genova - Pavia

Gran sonno stanotte, navigazione ottima, sveglia alle 06.30 ma poltrisco, non ho fretta. Mi alzo alle 07.00 alla chiamata generale, l’attracco è previsto in orario per le 08.00. Toilette, smonto il giaciglio, colazione con tutto comodo. Fuori intravedo il tempo grigio, l’acqua del porto è molto increspata, segno di forte vento. Scendo in garage, armo la biga, esco dalla nave alle 08.10. Vengo immediatamente schiaffeggiato da un vento fresco e teso. La provvidenziale felpina aiuta una seconda volta, ma avrei bisogno di qualcosa di più robusto. Nonostante il clima non proprio favorevole, dovendo attendere il treno per Pavia delle 11.10, scelgo per un giro del porto. Parto dall’Acquario, ultimo punto a me noto ad est, e mi spingo nella zona degli ex-magazzini, riqualificati per le Colombiadi del 1992. Un sapiente intervento urbanistico lo ha trasformato in un salotto cittadino sull’acqua, molto bello. Peccato per il tempo, con un pò di sole sarebbe stato ancora più gradevole. Gironzolo privo di una mèta precisa tra gli sguardi un pò incuriositi dei genovesi che cominciano a circolare per la città. Mi addentro nella parte storica, Palazzo Ducale, il Duomo, i carruggi. Posti mai visti prima, a causa della natura di luogo di passaggio rivestita da questa città nel mio vissuto. Vicoli dove ce la faccio appena a passare con la bici, larghi quanto le borse. Traccheggio a sazietà, dopodiché dirigo verso la stazione, già paventando enormi sforzi per gestire bici+borse nell’inenarrabile dedalo di scale. Col furbissimo trucco di avanzare con le borse sganciate riesco a cavarmela meno peggio del previsto, alternandomi su e giù per le scale prima le borse e poi la bici. Bivacco al binario 17 fino sino a quando il treno si anima e salgo. Mentre assicuro la bici ai supporti all’uopo predisposti fa il suo ingresso un altro pazzo dotato di una invidiatissima Cinelli Bootleg equipaggiata. Scoprirò dopo poco che è di Milano, e sta arrivando dal giro della costa Est della Sardegna, da Olbia a Cagliari. Lui il mio stesso giro lo ha già percorso in passato, in due tappe. Ci scambiamo qualche commento una volta seduti, ma la stanchezza prevale e si addormenta. Io scrivo appunti. All’arrivo a Pavia mi accorgo della ruota posteriore sgonfia, e al mio intervento con la pompa la valvola mi resta letteramente in mano. Assolutamente ridicolo: l’unica rogna tecnica in 370 chilometri a pochi minuti da casa....

Sento che è finito un episodio, ma la storia continua.......

2 commenti:

  1. Davvero un bel viaggio (e racconto). Questa primavera, se avrò ferie, la proverò anche io!

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  2. Ciao, ho letto il tuo racconto,mi è piaciuto e divertito. Questo primavera (siamo nel 2018) mi lancerò nell'impresa, ero un pò preoccupato per il clima ma mi hai tolto ogni dubbio. Utilizzero la tua traccia gps.. quindi grazie.

    Riccardo

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