martedì 2 ottobre 2012

A TRE CENTIMETRI DALLA FINE

Io non sono religioso.
Non sono neppure un bestemmiatore, ma non sono religioso.
Il che mi porta a non attendermi granché da ciò che mi circonda, e mi sforzo di creare da me ciò di cui ho bisogno io e la mia famiglia.
Ciò mi porta anche a non credere a qualcosa, qualcuno o altro che dirige, controlla, guida la mia esistenza terrena.
Ma devo ammettere che c'é stato almeno un istante, un momento, un millesimo di secondo in cui non è stato così. E per tutto il tempo che ne è seguito devo ammettere di averci riflettuto, qualche volta.
Pomeriggio tardi di fine novembre, qualche anno fa.
E' buio, e io sto tornando da lavoro lungo una provinciale non illuminata, ma comunque larga e con quasi un metro di spazio a destra, tra la striscia bianca ed il ciglio dell'asfalto.
La bici ha due luci a LED che sparano avanti, per chi le vuole notare.
Il traffico è scorrevole e regolare lungo il bel rettilineo sul quale si aprono gli accessi alla viabilità rurale circostante che collega alcune cascine.
La gamba tiene bene, e io sto filando attorno a trentacinque all'ora accucciato a uovo.
Due, tre, quattro auto in rapida successione mi superano, lasciando poi un varco di qualche centinaio di metri con quelle che seguono.
Ed eccolo lì, il coglione che non ti aspetti.
Provenendo dalla direzione opposta, due massicci fanali a più di mezzo metro da terra (sicuro indice di SUV o di pick-up) prendono il via dalla mezzeria della strada, dove erano in paziente attesa del varco, e scattano in avanti tagliando la corsia dalla mia sinistra verso destra con l'intenzione di imboccare un viottolo laterale, dieci metri prima del mio passaggio.
Ma l'automunito, avvedendosi delle due trascurabili lucine in avvicinamento più rapido di quanto immaginato, inchioda di traverso a metà corsia.
L'abbrivio impartito al pachidermico mezzo al momento dell'accelerata non consente però una frenata immediata ed efficiente: lo spigolo sinistro dell'autoblindo si ferma cinque metri davanti a me.
A trentacinque all'ora, in postura raccolta, in combinazione invernale, con un ostacolo fisso che compare all'improvviso a cinque metri, sapendo che alla mia destra c'é un guard-rail e, oltre il buio, il fosso con l'acqua.

Ciò che ricordo da questo momento in poi è al rallentatore per i successivi tre secondi.

Accenno - perché non mi è consentito fare di più - uno scarto sulla destra. Più che uno scarto è uno spostamento di qualche millimetro del baricentro del corpo, sposto la testa, il gomito, il lobo dell'orecchio, un paio di organi interni e anche il sopracciglio. Per aggiustare la traiettoria tento di inclinare la bici, appiattisco la gamba sinistra contro il telaio, ma non ho il tempo di alzarmi sul sellino per flettermi né di aggiustare l'orientamento del pedale per non agganciare il paraurti. Non ho neppure il tempo di stupirmi, o di incazzarmi.
Un istante dopo mi tuffo nel doppio abbacinante fascio di luce dei fanali del simil-autocarro,  quasi all'altezza della mia faccia, con l'effetto di cancellare ogni riferimento circostante. Riesco nettamente a distinguere le rigature dei settori e i codici del fanale stampigliati sul vetro (quanto vicini bisogna essere per riuscirci?). Il suono del motore è un impulso ovattato, anche per effetto del passamontagna.
Aspetto l'urto.
L'istante successivo sto pedalando nella pece, ancora verticale, incredulo.
Per un secondo pedalo senza cognizione della direzione, so di avere deviato leggermente ma per l'abbagliamento improvviso dei fanali di un secondo fa non vedo dove sto andando e sto filando ai trenta all'ora.
Riesco finalmente a distinguere il bordo strada. Mi raddrizzo e riprendo a pedalare.
E solo allora arriva l'adrenalina, che mi brucia le energie che avevo fino a quel momento, e mi fa sentire fiacco e vuoto. Arrivo a casa spossato che neppure avessi fatto l'Alpe d'Huez.
Io non so se esiste qualcosa, qualcuno o altro che dirige, controlla, guida la mia esistenza terrena.
Ma una botta di culo ogni tanto ha sempre il suo perché.



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