martedì 11 giugno 2013

L'ALLEGRA VITA DEL CICLISTA - Parte 3: Il Film Della Tua Vita (in bianco-e-nero e senza sonoro)

Avete mai provato il senso della fine?

Quel momento, intendo, in cui ti rendi conto di esserti spinto fino ad un punto che basta un sussurro, uno squittìo, un nonnulla per fare la differenza tra un "rieccomi!" e un "beh, è stato bello finché e durato"?

Uno di quegli attimi che stabiliscono un "prima" e un "dopo", passato il quale ti rendi conto che ti è stata regalata una seconda possibilità per fare tesoro delle tue stronzate? Quell'istante le cui fila sono sorrette da qualcosa d'altro che non sia la tua capacità di giudizio e il tuo consapevole discernimento, che ti accorgi che la tua vita, per una fugace manciata di secondi, ha fluttuato nella grigia nube della casualità (cioè, in misura maggiore del solito)?

In soldoni: avete mai incontrato il vostro limite?


Bene, a me è accaduto in una galleria, al buio, in discesa sparata, bagnato fino al midollo, in preda a violenti brividi per l'ipotermia, su una statale ligure trafficatissima e stretta, durante una bufera di pioggia scrosciante. E dopo avere VOLUTO essere lì, VOLENDO essere lì.

Era partito tutto come un'escursione più lunga del solito, di una sola giornata, una Randonnèe in solitaria.

L'obiettivo era varcare una catena di montagne e giungere al mare nel tardo pomeriggio. Poco più di un centinaio di chilometri in otto ore, una passeggiata.

Solo che gli elementi tramavano contro di me, e mi avevano organizzato una di quelle giornate inspiegabili a Giugno, con nuvoloni neri e gonfi che si stagliavano sopra le cime, e temperature molto basse per la stagione.

Complice una disattenzione che mi fa sbagliare strada dopo i primi cinquanta chilometri, mi dirigo senza saperlo verso tutt'altra méta, e quando me ne accorgo mi devo reinventare il viaggio così, su due piedi, in mezzo alle montagne e senza alcun appoggio né aiuto materiale. A metà del viaggio mi ritrovo quindi nella situazione in cui, per poterne venire fuori, l'unica cosa che posso fare è pedalare fino in fondo, senza possibilità di altra scelta, per i prossimi settanta chilometri.

Comincia a piovere, dapprima in modo gentile, e via via che si avvicina la vetta in modo sempre più cattivo. Siccome sto procedendo lungo una valle grossomodo orientata a sud, soffia un forte vento, intubato dall'orografia circostante come un asciugacapelli. La strada in pendenza convoglia verso di me rivoli di tre centimetri d'acqua da ogni direzione: in salita, in discesa o in curva. Le scarpe si riempiono, le calze si inzuppano, la pedalata si fa pesante tanto che a un certo punto mi fermo a verificare se magari non si sia impigliato qualcosa nelle ruote, tanto è lo sforzo che devo fare per avanzare. Poi pensandoci realizzo che mi sto appesantendo maledettamente a causa della pioggia, e che magari le forze al settantesimo chilometro non sono come quelle al ventesimo.

Comincio in quel momento a percepirla. L'ipotermia. All'inizio è subdola in modo caratteristico, appena accennata. Comincia con un intorpidimento alle punte dei piedi. In capo a mezz'ora non li sento più, e articolo la pedalata facendo leva direttamente su ginocchia e caviglie. Ma finché salgo, il mondo mi è amico: se si sale, almeno nel corpo sto caldo perché faccio attività muscolare. E allora sono le mani, che comincio a non sentire più. L'inizio della fine, in quelle condizioni, avviene quando la strada comincia a scendere verso il mare: scavallando il Passo in quota, bagnato, a pedale fermo e quindi a muscolo freddo. In capo a tre minuti netti comincio a tremare in modo incontrollabile, tutto il corpo sembra non rispondere e devo fare un supremo sforzo per tenere la bici dritta. Artiglio il manubrio come se mi dovesse reggere sull'orlo del precipizio, le auto lungo la Statale sfrecciano con un frastuono scrosciante sull'asfalto bagnato. Batto così violentemene i denti che, per paura di spezzarmeli, serro la mandibola fino a farmi male.

Senza smettere di tremare mi concentro sulla strada ma sento che i miei sensi si stanno ottundendo, la realtà circostante sta sfumando, le sensazioni ovattando.

E faccio conoscenza con il limite.

Sfrecciando ai cinquanta all'ora sul bagnato mi infilo in un tunnel. L'illuminazione non funziona. E' buio pesto.

Ho gli occhiali bagnati e appannati. Non vedo più niente, salvo un minuscolo indistinto puntino chiaro in lontananza: l'altro lato della galleria. Non distinguo più la strada, non so se sto procedendo a destra, al centro o contromano. L'unica cosa che avverto sono le asperità della strada, sassolini, buche. Non posso staccare le mani dal manubrio per levarmi gli occhiali, col tremore non riuscirei a tenere la bici dritta con una mano sola. Avevo freddo prima, adesso fa ancora più freddo. Trafiggo l'oscurità totale diretto verso il lumino sfocato laggiù, per un tempo indefinibile. Non sento più nulla, non provo più nulla. Non provo orrore, inquietudine, timore, né gioia. Sono sospeso nel mio torpore, riesco solo a percepire la gravità che mi attira verso il basso, in discesa, schiacciante ma amica. Per lunghi istanti mi sembra quasi di essere fermo, immobile, al buio, sguardo fisso in avanti verso il chiarore fioco.

L'uscita dal tunnel è uno sberlone. Secco, forte, vitale, salvifico. Dritto in faccia.
Grosse gocce di pioggia mi tempestano il viso, risvegliandomi dalla catalessi con una gragnuola quasi dolorosa. Riesco in un nanosecondo a staccare gli occhiali dal naso, la mia visuale si apre di un paio di centimetri verso l'avanti.

Devo riprendermi, mi fermo ad un bar. Sotto il diluvio scendo dalla bici, accosto e mi siedo su un muretto al coperto, capo chino, concentrandomi per non farmi prendere dal panico. Due ragazzotti dalla porta del bar mi osservano senza muovere un dito né profferir parola, la vacuità del loro sguardo come segno tangibile del loro contenuto mentale. Io non riesco a fermare il tremore, digrigno i denti e serro i pugni mentre muovo qualche passo ed entro nel bar.

I pochi e dinoccolati presenti ammutoliscono all'entrata del tremebondo e sgocciolante automa, in calzoncini corti e aderenti a scapito della giornata novembrina. A pensarci poi, devo essere sembrato Wile E. Coyote dopo aver ingoiato l'intero flacone di Earthquake Pills. Il barista più ributtante dell'universo sbigottisce ma mi assiste con solerzia quando chiedo un cappuccino e un thé caldo. Impietosito al di là di ogni mia richiesta si offre di tenermi la bici e di vendermi i biglietti del bus per scendere al mare, tornerò poi a riprenderla con comodo. Piuttosto ci crepo, sulla bici, penso. Gli astanti si godono l'inatteso diversivo domenicale del forestiero che tenta di bere il suo thé uno spruzzo per volta: nella tazza tremolante è in corso una tempesta forza nove. L'urgenza di ingerire un liquido caldo mi fa ustionare la bocca, la lingua, la gola, tutto. Esauriti cappuccino e thé mi cambio nel bagno del bar, indosso una maglia asciutta riservandomi il resto - calze e pantaloncini - per l'arrivo a destinazione. Prima di lasciarmi andare il barista, su sollecitazione di un entusiasta, mi fa dono di due giornali da infilare sotto la giacca: mi accorgo allora di stare rinverdendo, per la piccola attempata comunità locale, i fasti del ciclismo epico di sessant'anni fa. Manca solo Dino Buzzati, ma solo perché sono io che sono in ritardo. Mi accomiato in silenzio, ricambiato dai presenti.

Riprendo la strada, se possibile la pioggia è peggiorata ulteriormente. La strada è inondata e tortuosa, segnali di pericolo multiformi e variopinti si susseguono ammonitori lungo la discesa.

Nel volgere di qualche chilometro percepisco la temperatura aumentare sensibilmente, e quando entro in città e la strada spiana sto decisamente meglio, perché dovendo ricominciare a pedalare mi scaldo un pò.

Arrivo a destinazione che neanche ci credo, sono troppo instupidito e intontito per rendermene conto.

Ma per essermi cacciato in una situazione simile, stupido e tonto dovevo esserlo già da prima, e molto.





2 commenti:

  1. Ho letto la tua storia tutta d'un fiato e per come l'hai narrata mi sembrava di essere li con te. :-) Complimenti per minuziosa descrizione degli eventi e, ovviamente, per la mitica impresa!!!! Tutto è bene quel che finisce bene!!!!
    un saluto, Giovanni

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  2. Leggendo facevo il tifo per l'uscita dal tunnel!!!!! Grandissima impresa

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